Ha fatto il Sessantotto prima del Sessantotto. Ha spalancato le porte delle chiese prima del Concilio. Ha sferzato la politica democristiana nel momento della sua massima potenza. Ha rovesciato la piramide, ossessionato dalla povera gente, negli anni del boom economico, degli elettrodomestici, delle autostrade in pochi anni. Ha incarnato “compromessi storici” prima che la Repubblica conoscesse il concetto di “centrosinistra”. Ecco don Lorenzo Milani, il cappellano di San Donato di Calenzano, il prete che riempie la parrocchia, il maestro di Barbiana circondato dai bambini. Il “signorino” – nato tra le comodità di una famiglia benestante – che litiga coi vescovi e che maltratta gli industriali, il “figlio del padrone” che sbugiarda i potenti. Coerente fino a essere bastian contrario, ostinato, intransigente, “radicale”. Di una radicalità “cristiana”, nel senso proprio di Gesù, di chi non accetta ripieghi, adattamenti, transazioni. Il non politico che fa politica. L’eretico che brandisce il Vangelo. Il disobbediente che vuole la rivoluzione e non vuole le armi.

Un profeta“. A restituire tutta la potenza alla figura di don Lorenzo Milani – nato oggi, cent’anni fa – e a liberarlo dalla figurina in cui spesso è stato schiacciato (col rischio di scambiarlo per un santino) è Mario Lancisi, uno dei più esperti conoscitori della vita, del pensiero e delle opere del Priore di Barbiana, folgorato dal messaggio milaniano dopo una bocciatura a scuola. Per il centenario ha pubblicato Don Milani – Vita di un profeta disobbediente (Terrasanta edizioni, 352 pp., 26 euro), il racconto – avvincente, divertente e commovente – dell’esistenza di un prete scomodo, difensore degli scartati, in vita esiliato dalla Chiesa e avversato dallo Stato, che ai giorni nostri nella sua Barbiana nel 2017 (a 50 anni dalla morte) ha ricevuto l’omaggio di Papa Francesco e oggi avrà quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il libro di Lancisi – che riesce ad esprimere l’intensità di un romanzo, rara per una biografia – è animato da aneddoti, nuovi documenti e da due interviste ad Adele Corradi – insegnante che ha lavorato a fianco del sacerdote – e Francuccio Gesualdi, ex allievo che a Barbiana ha vissuto per 13 anni. Un volume che può sorprendere per l’impressionante attualità del messaggio lasciato al mondo da don Lorenzo, il figlio del chimico. “Uno – scrive Lancisi – che per rovesciare il mondo antico, gli egoismi individuali e sociali, le logiche del potere disobbedisce in forza di un’obbedienza salda al Vangelo”, la buona novella che rivela e sconvolge rivelando che un nuovo mondo è possibile. “Quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire – scrive don Lorenzo riferendosi alla Dc pilastro della giovane democrazia italiana – Essere liberi, avere in mano sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti”.

Mario Lancisi, le richieste per organizzare presentazioni del suo libro arrivano da tante parrocchie ma anche da tante sezioni dell’Anpi. Come se lo spiega?
Con il fatto che in don Milani, dalla radice religiosa di una testimonianza personalissima che affonda nella fede e quindi imperscrutabile per chi la fede non ce l’ha, come ha osservato il giornalista amico del priore Giorgio Pecorini, cresce anche un tronco pubblico e civile usabile politicamente.

Nel sottotitolo del suo libro don Milani lo definisce “profeta”. In che senso?
Nel senso di colui che indica una strada, ha una visione, osa il futuro. Non a caso don Milani non cita mai: è lui che parla direttamente.

Il libro, fin dall’inizio, rende chiaro che le opere e le parole di don Milani poggiano sul suo carattere personale intransigente e del suo modo di pensare ed agire “radicale”. Un modo di pensare e di parlare che è esattamente quello che pare mancare nel discorso pubblico di oggi, soprattutto in politica (pensiamo solo alle questioni ambientali). E’ d’accordo?
Certo, ma forse è anche un po’ inevitabile nel senso che Milani, come ad esempio altri “profeti” civili, penso ad esempio a Pasolini, sono figure rare, che anticipano i tempi. Rari ma il cui pensiero è sempre attuale, ci morde contro. Luci che non si spengono mai.

Lei racconta come in seminario Don Milani comincia a farsi vedere per quello che sarà per tutta la vita: obbediente e ribelle. Ma non è una contraddizione?
No, se si specifica che l’obbedienza è riferita ai valori del vangelo, i quali implicano una “disobbedienza” a tutto ciò che li contraddice. Tutta l’esperienza di don Milani ruota intorno alla dicotomia obbedienza-disobbedienza.

Il centro della sua ribellione è in particolare la reazione a quello che vive come un tradimento della Dc. Cosa si aspettava don Milani?
Si aspettava quello che molti cristiani speravano dall’avvento al potere della Dc, cioè una politica ispirata dai valori del vangelo e dalla dottrina sociale della Chiesa. In quegli anni ad esempio La Pira requisiva le case sfitte e lottava contro i licenziamenti non in nome di Marx, ma di Gesù.

Contro Confindustria usa parole quasi violente, parla di “dinamite nel sedere dei padroni”. E’ questo un linguaggio da uomo di Chiesa?
Don Lorenzo usava un linguaggio che si proponeva di essere schietto, senza ipocrisie e anche popolare per essere compreso da operai e contadini. Detestava il linguaggio borghese, che è quello appreso nel suo mondo di origine, ma anche quello clericale in uso nei seminari e tra il clero. In questo caso poi il linguaggio è metaforico, efficace, in grado di dare il senso della rabbia milaniana nei confronti degli imprenditori che sfruttavano i poveri.

Impressiona notare come alcuni temi sociali sollevati da don Milani, sessanta o settant’anni fa, siano ancora attuali oggi: le paghe, le case, l’analfabetismo che indebolisce il potere della povera gente.
Don Milani è stato, almeno a mio avviso, uno dei più grandi intellettuali del secondo Novecento. Ha affrontato temi cruciali. Con Esperienze pastorali, libro uscito nel 1958, don Milani anticipò la riforma religiosa che, a partire dall’autunno del 1962, verrà realizzata dal Concilio Vaticano II. Figlio della Chiesa dell’onnipotenza di papa Pacelli, don Milani con il suo coraggio e la sua ribellione, schiude gli orizzonti al tempo nuovo del cristiano copernicano, come amava definirlo Ernesto Balducci. Con L’obbedienza non è più una virtù (1965) il priore di Barbiana affrontò con i suoi ragazzi i grandi temi della pace, in un mondo allora sul crinale del conflitto atomico, della disobbedienza civile e del primato della coscienza. Il movimento pacifista si radica lì, nella disobbedienza creativa di don Lorenzo, come più volte ha riconosciuto Gino Strada. Infine con Lettera ad una professoressa (1967), scritta con i suoi ragazzi seguendo il metodo della scrittura collettiva, don Milani colse il clima che sfociò nel ’68 denunciando il carattere classista della scuola e affermando l’idea della pluralità delle culture nella costruzione di una società di cittadini sovrani. Con questo voglio sottolineare che non può sorprendere l’attualità di don Milani. Il punto è proprio questo: il centenario non deve essere celebrativo ma riflessivo, nel senso di farci riflettere sulla sua lezione ancora oggi attuale.

Don Milani finì in tribunale per la sua Lettera ai cappellani in cui in praticava li invitava ad educare i soldati all’obiezione.
Riconoscimento dell’obiezione di coscienza, ma soprattutto obiezione alla guerra.

L’altro avversario di Don Milani è la sua Diocesi. Eppure il cardinale Elia Dalla Costa è stato un arcivescovo a suo modo “eroico”: fu colui che sbarrò tutte le chiese e si rifiutò di partecipare alle cerimonie nel giorno della storica visita di Hitler a Firenze perché non si venerassero “altre croci che non quella di Cristo”. Come si spiega allora questa opposizione alle attività di don Milani?
Dalla Costa non avversò don Milani. A tal punto che è a dare l’imprimatur ad Esperienze pastorali, libro poi condannato dal Sant’Uffizio. E’ vero che è sotto Dalla Costa che don Milani fu esiliato a Barbiana, ma sul cardinale pesarono forse giudizi curiali, quelli sì avversi a suo operato.

Come fu la storia della censura di “Esperienze pastorali”? Cos’aveva di così scandaloso (e quindi potente) da non poter correre il rischio che fosse diffuso?
Mette in risalto l’inconsistenza della fede dei cristiani. Denuncia le condizioni sociali e culturali del suo popolo e della società degli anni subito dopo la guerra. Mostrò come dietro il mito virtuoso della Ricostruzione si celasse lo sfruttamento degli operai e dei contadini. Esperienze pastorali è il documento del fallimento della pratica religiosa nella chiesa dell’onnipotenza pacelliana e della Ricostruzione come spinta propulsiva dell’economia del piano Marshall.

Barbiana, dunque. Come funzionava concretamente la scuola? Quali di quelle tecniche o prassi o intuizioni di insegnamento sono importanti ancora oggi?
A mio avviso l’intuizione più importante è la rottura con la scuola dei programmi nel senso che a Barbiana tutto era scuola. Non si possono inchiodare i ragazzi, almeno nella scuola dell’obbligo, ai programmi e ai voti. La scuola non può essere, come si legge in Lettera a una professoressa, “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

Lei don Milani non l’ha mai conosciuto, ma racconta sempre che le ha cambiato la vita per sempre. Crede che possa succedere a un ragazzo di oggi?
Credo che per crescere ci sia bisogno di profeti. Lorenzo Milani lo è stato, ma ogni epoca ha i suoi, e il segreto della vita sta nel saperli riconoscere e amare. Questo e non altro è il senso profondo del mio libro: racconto una storia, indico una strada.

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