Un’anziana signora con i capelli bianchi raccolti sulla testa ci viene incontro, “questi sono per voi”. Ha novantadue anni, vive qui. Ci ha portato dei cioccolatini al rum con la carta rossa. Li scarta e ce li infila direttamente in bocca perché noi abbiamo le mani sporche di fango, in una sorta di comunione laica al gusto di cioccolato. Siamo nel fango da stamattina. A spalare e buttare via mobili marci.

Una giornata infinita iniziata questa mattina con la preparazione, assieme a un folto gruppo di amici, di quello che abbiamo chiamato “kit apocalisse”. Stivali, guanti da lavoro, secchi, pale, scopone, vestiti di ricambio, bottiglie d’acqua e qualche cosa da mangiare. Da Ravenna, per ora salva, raggiungiamo le zone più colpite. Saliamo in macchina e sull’autostrada sorvoliamo un mare che fino a due giorni fa erano campi di pesche, di fragole e di granturco. La strada Faentina finisce bruscamente in un oceano da cui svetta ogni tanto un tetto, o un’insegna ormai appesa nel nulla: MediaWorld, OBI, Famila. Vediamo i soccorsi aggirarsi sui gommoni con Google Maps alla mano, per stare attenti di non passare sopra un tetto senza accorgersene. Cercando di seguire la strada di cui ormai non rimane neppure l’idea.

Attraversiamo una Romagna irreale, con auto parcheggiate sui ponti, acqua che sfiora l’autostrada soprelevata. Accanto a una Punto verde sul margine della carreggiata vedo un ragazzo che sta indossando una muta da sub, sta tornando a prendere delle cose da casa.

Quando arriviamo a Faenza la situazione è diversa da come ce l’aspettavamo. Una parte della città è intatta, come se niente fosse avvenuto. Poi mano a mano che ci avviciniamo alla piazza sempre più persone che camminano nella nostra direzione sono completamente infangate. La città è spezzata a metà. Una parte è salva, l’altra devastata. Che strana cosa è la sorte. Bastano pochi metri a decretare chi ha ancora una casa da chi non l’ha più. Ad ogni passo il fango per terra inizia ad aumentare, e a un certo punto lo spettacolo che ci si para davanti è da film apocalittico. Il fango riempie le strade, in alcuni punti fino al ginocchio. Una melma densissima, che si avvinghia alle gambe e ai vestiti. E poi quell’odore. Non potrò mai dimenticarlo. Un odore acre, pungente, nauseante. Di qualcosa di putrescente. Un fetore che non avevo mai sentito prima. Fortissimo, da far venire la nausea. Però dopo aver iniziato a spalare e a lavorare non lo si sente più, ci si fa l’abitudine. Gli esseri umani si abituano a tutto, abbiamo un coriaceo spirito di sopravvivenza.

Ecco alcuni appunti che ho preso mentalmente su ciò che non dimenticherò di questa eterna giornata. Ricorderò i tantissimi giovani, venuti per aiutare da Bologna, Imola, Ravenna. I loro sorrisi, la voglia di fare, senza paura di sporcarsi le mani. Ricorderò la signora che mi ha chiesto di lasciarle quelle foto completamente coperte di fango, perché voleva provare a salvare qualche memoria. Ricorderò l’anziano che prende dal suo frigorifero ormai rovesciato in mezzo alla strada i magneti. Ricorderò l’omaccione che ci allunga una bottiglia di Sangiovese dicendo “vi ho portato un po’ di buon umore” e si ferma a brindare con noi. Ma ricorderò anche il bisticcio ridicolo tra due condomini che continuano a litigare dalla precedente riunione di condominio, come sempre: hanno già riprese la loro routine di schermaglie. Ricorderò le pile di libri ricoperti e distrutti dal fango. Ricorderò gli oggetti assurdi trovati nelle cantine e resi irriconoscibili dalla melma: gli sci spaiati, la collezione di presepi, i vestiti a pois anni ’80, le tv a tubo catodico e la collezione di Topolino. Ricorderò la studentessa di belle arti dal viso dolce e le treccine bionde che cala il braccio fino alla spalla dentro un tombino per togliere dei rami che lo ostruivano.

Ricorderò il ragazzo riccio che lanciava frigoriferi dalla finestra nel fango, dalla zona del Borgo, in cui il fango è arrivato fino al secondo piano, a quattro metri di altezza. Ricorderò le ragazze di Plasticfree venute in un gruppo compatto e organizzatissimo. Ricorderò Francesco, che continuava a spalare nonostante avesse gli occhiali completamente offuscati dalla malta. Ricorderò il buio delle cantine da vuotare, in cui non si vedeva nulla e ci si orientava solo seguendo le voci delle persone. Ricorderò i tanti amici che non vedrò mai più, ma con cui ho condiviso una giornata di duro lavoro. Ricorderò il primo pensiero avuto vedendo quel disastro, “non ce la faremo mai”, e la soddisfazione di quando andando via ci siamo accorti che non era così. Ricorderò la fatica e la stanchezza di quando la sera sono arrivato a casa. Ricorderò la sensazione di sollievo e il senso di colpa, nel pensare di essere dalla parte di quelli che la casa ce l’hanno ancora.

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