Chi compra un grande club di calcio sa bene che tale investimento comporterà pesanti perdite. Se si escludono casi isolati, le perdite sono certe, non a caso i club fanno spesso ricorso all’escamotage contabile delle plusvalenze (la sovrastima del valore commerciale dei calciatori) per aumentare “fittiziamente” i ricavi. Unico vantaggio potrebbe essere ottenuto con la rivendita del club, se nel frattempo il suo valore patrimoniale è aumentato.

L’acquisto di un club non è quindi motivato per ottenere vantaggi economici diretti, ma diventa una sorta di merce di scambio per ottenere altri vantaggi. Quali? Per esempio, guadagnare i favori della collettività e della classe politica. C’è poi la possibilità di partecipare alla grande politica internazionale come l’assegnazione delle sedi dei campionati mondiali ed europei. Da non sottovalutare anche la possibilità di partecipare al business della costruzione dei nuovi stadi che tutti i club caldeggiano, come fosse la panacea di tutti i problemi del calcio professionistico (si spera che queste scelte siano attentamente valutate in merito all’impatto ambientale).

Ricordiamo quale enorme credito d’immagine acquisì Silvio Berlusconi con il Milan. Roman Abramovich scala nel 2003 il Chelsea e conquista cinque titoli nazionali, dopo un digiuno durato cinquant’anni, e altrettanti europei. “Si dice” (Fonte: Andrea Goldstein, Il potere del pallone, 2022, Il Mulino) “che abbia comprato il Chelsea per compiacere Putin, desideroso di migliorare l’immagine della sua Russia agli occhi dell’opinione pubblica occidentale” (si fosse fermato al calcio, avremmo guadagnato tutti).

La Premier League è il campionato più ricco d’Europa e questo attira l’attenzione dei ricchi del mondo, come gli arabi del Golfo: il City, squadra “sconosciuta” di Manchester, a seguito dell’acquisto nel 2008 da parte di uno sceicco ha conquistato subito il primo scudetto e dopo altri quattro, contro uno solo dello United. Il Paris Saint German è la società più ricca, ma incontra difficoltà nella Champions, a conferma che non si vince solo con i soldi.

Anche in Italia sono arrivati da tempo gli “stranieri”. Una società cinese ha comprato l’Inter (come una sorta di passaporto per la “via della seta”). Ora furoreggiano i fondi americani (in Spagna e Germania il fenomeno è meno diffuso, grazie a forme specifiche di garanzia sulla proprietà).

L’obiettivo per chi si cimenta nell’avventura calcistica è raggiungere le vette del successo, altrimenti si rischiano le contestazioni del pubblico-tifosi (non sempre è sufficiente scaricare le colpe sull’allenatore). E i trofei si conquistano spendendo più degli altri per avere le prestazioni degli atleti top. Il problema è che i costi crescono a dismisura mentre i ricavi incominciano a ristagnare. I ricavi sono rappresentati dagli incassi degli stadi, dalle sponsorizzazioni ed in prevalenza dai diritti televisivi. Diritti che sono pagati dalle televisioni e dalle piattaforme basandosi da quanto ottengono dagli abbonati e dai ricavi pubblicitari. Il problema è che queste fonti si stanno prosciugando.

Gli ascoltatori delle partite nella televisione diminuiscono al pari con la diminuzione della platea televisiva. L’offerta di partite copre tutti i giorni della settimana e ciò allontana il pubblico: la quantità svilisce sempre la qualità. Tanti referiscono vedere solo gli highlight! Calano gli abbonati e diminuisce anche la pubblicità. Oltretutto la pubblicità sta attraversando una fase particolare, nella quale si allontanano dalla Tv una fetta importante e “ricca” di pubblicità, in particolare quella riguardante i prodotti di marca, che spesso preferiscono avvalersi di altri strumenti come gli influencer. Si consideri inoltre che ancora non è a regime quel che diventerà il numero uno degli influencer, i Chatbot.

Le due principali fonti di finanziamento del sistema-calcio, gli abbonamenti alla pay e la pubblicità televisiva, non crescono quindi a ritmi sostenuti come un tempo e questo è causa della crisi in quanto i costi di contro non rallentano.

Come risolvere i problemi? Da parte dei gestori del calcio si punta su tre direttrici: la costruzione di nuovi stadi, l’aumento del numero delle partite con l’aumento delle squadre partecipanti ai vari tornei e con la nascita di nuovi tornei (come sarebbe stata la “Super-Lega”), la (sacrosanta) lotta alla pirateria (un ulteriore problema è la difficoltà dello streaming data la situazione deficitaria della nostra Rete, che il Pnrr, se attuato, dovrebbe risolvere). Se si esclude la questione della pirateria, le altre due non sembrano rappresentare la soluzione definitiva dei problemi.

C’è un dato che va sottolineato: mai, in nessuna dichiarazione dei vertici del calcio, nemmeno durante la pandemia, si è sentita la parola “costi”, mai nessuno ha sostenuto che i costi vanno ridotti e che bisogna aumentare la produttività dell’azienda-calcio. È corretto che si cerchino nuove strade per aumentare i ricavi, ma sarebbe altrettanto corretto prendere atto che “prodotto-calcio” vale economicamente di meno e che necessita di una profonda ristrutturazione.

Un primo passo sarebbe quello di ridare piena fisionomia di impresa alle società calcistiche. Bisognerebbe creare una autorità autonoma a livello europeo che controlli le ottemperanze da parte dei club ai vincoli finanziari (il fair play finanziario, il salary-cup). Il sistema migliorerebbe e ci sarebbe una vera competizione anche nel rettangolo di gioco.

C’è infine un’altra questione. L’arrivo di un Fondo di investimento è spesso salutato con gioia dai tifosi, che sperano che il club possa così risollevarsi. Ma gli interessi degli uni e degli altri non sempre collimano. Bisognerebbe allora prevedere delle forme di garanzia che tuteli la comunità dei tifosi.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Inter-Juve, la Figc pensa a cancellare la squalifica di Lukaku per dare un forte segnale nella lotta al razzismo

next