di Venerando Gambuzza

Sono ormai decenni che organi come l’Ipcc si occupano di garantire una visione scientificamente valida sui cambiamenti climatici e sui loro impatti ambientali, sociali e economici. Dall’ultimo report del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico si evidenzia come la temperatura media globale sia superiore di oltre 1,1°C rispetto ai livelli preindustriali e che la probabilità di superare 1,5°C prima del 2030, limite imposto dall’Accordo di Parigi, si fa sempre più vicina.

Nessun luogo al mondo è rimasto indenne dall’impatto dei cambiamenti climatici: inondazioni, siccità, eventi meteorologici estremi e imprevedibili che distruggono vite umane e mezzi di sussistenza. Ma sono le popolazioni dei paesi a basso reddito, che meno hanno contribuito alla crisi climatica, a essere colpite più duramente e ad affrontarne le conseguenze più pericolose. Per milioni di persone questa crisi rappresenta una minaccia alla vita stessa: infatti è stato stimato che, entro il 2030, il cambiamento climatico potrebbe spingere oltre 120 milioni di persone in più verso la povertà.

L’emergenza climatica è reale e presente, non una minaccia del futuro: oggi si stima che oltre 3 miliardi di persone sono altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici, la maggior parte in Africa, che vede 10 paesi del suo continente tra i più esposti a questa emergenza. L’intero continente africano è responsabile solo di meno del 4% delle emissioni globali di gas serra, ma sta vivendo inondazioni estreme, come successo nel corso degli ultimi 4 anni in Sud Sudan; ha visto aumentare precipitazioni locali del 150% a causa di frequenti cicloni tropicali, come è successo quest’anno in Mozambico; e osserva il deserto del Sahara espandersi, con il Mali che vede ogni anno 48 km del suo territorio inghiottito dalle sabbie.

Il lago Ciad si è ridotto del 90% negli ultimi 60 anni a causa della siccità, lasciando oltre 10 milioni di persone senza rifornimenti di acqua potabile, irrigazione per le attività agricole e allevamento. Nel Corno d’Africa, milioni di capi di bestiame sono morti a causa di eventi meteorologici estremi e oltre 36 milioni di persone devono affrontare gravi carenze d’acqua, insicurezza alimentare e una storica siccità. La 152esima del continente africano dal 2000.

Queste sono solo alcune delle sfide che questi Paesi vulnerabili si trovano a dover fronteggiare. Ma la disuguaglianza di questa emergenza si vede non solo dalle responsabilità delle sue cause, ma anche dalle capacità di risposta delle varie comunità rispetto a eventi meteorologici estremi, per i quali indubbiamente le risorse economiche a disposizione rendono più o meno semplice l’adattamento ai mutamenti del nostro ecosistema.

La minaccia al nostro clima è anche una minaccia alla salute globale, allo sviluppo umano e alla prosperità futura, ai diritti e alle libertà delle persone. Dobbiamo liberare i fondi necessari per consentire al mondo intero di adattarsi e rispondere alla crisi climatica, proteggendo i più vulnerabili, rimediando ai danni che sta causando e adottando su larga scala le tecnologie sostenibili che ci porteranno fuori da questa crisi.

Abbiamo bisogno di un piano concreto e urgente per garantire che il nostro futuro e quello delle prossime generazioni si adatti al cambiamento dell’ambiente. Nonostante l’adattamento ai cambiamenti climatici sia stato un elemento chiave dell’Accordo di Parigi del 2015, l’impegno finanziario assunto dalle nazioni ad alto reddito per sostenere la mitigazione climatica nei Paesi a basso reddito non è stato ancora pienamente rispettato.

E più il tempo in inadempienza passa, più il divario tra contributi e necessità va aumentando: i Paesi a basso reddito ricevono dai finanziamenti internazionali per il clima solo un decimo di quanto necessario per l’adattamento. La pandemia di Covid-19 e i suoi strascichi in materia sanitaria, l’aumento dei costi alimentari e il diminuire di risorse aggravano la precarietà di queste comunità, che da anni sono messe a dura prova da finanze già sovraccariche da debiti e vincoli fiscali contratti negli ultimi decenni, compromettendone la capacità di intraprendere azioni alla portata delle esigenze.

A oggi, le nazioni più ricche hanno promesso nuovi impegni per circa 960 milioni di dollari all’anno, ma tali importi sono ben al di sotto dei 70 miliardi di dollari all’anno di cui i Paesi in via di sviluppo si stima abbiano bisogno ora. Un contributo che, secondo le Nazioni Unite, dovrebbe salire a 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 per rispondere in modo appropriato a questa emergenza.

Quest’ingiustizia dimostra una visione a breve termine dell’attuale leadership globale. Si tratta di una scelta diretta tra adottare misure che andranno a beneficio di tutti i cittadini e tutte le cittadine, oppure rimanere in attesa e vedere il mondo intero affrontarne le conseguenze.

È evidente che la crisi climatica sottolinei le diseguaglianze che hanno caratterizzato gli ultimi decenni della nostra storia, e tuttora continua a farlo. I disastri ambientali e socioeconomici provocati da questa emergenza dovrebbero insegnarci che facciamo parte di un ecosistema e che questo va rispettato, altrimenti si cade nel baratro. È proprio per questo che, come giovane attivista, chiedo un’azione che metta la giustizia climatica al centro del proprio approccio. Questo non significa soltanto ridurre le emissioni, ma promuovere azioni che abbiano l’obiettivo di creare un mondo più equo, più giusto. Poiché se l’ingiustizia è la causa principale della crisi climatica, la lotta per la giustizia deve essere al centro delle soluzioni.

Ne va di tutti i nostri futuri, come collettività: possiamo parlare di un pianeta migliore e di un mondo più giusto, oppure possiamo iniziare a costruirlo. C’è ancora una via di ritorno, ed è qui che entra in gioco il ruolo di noi giovani attivisti e attiviste: far parte della causa e riscrivere il futuro con un cambio di rotta.

Photo credit: Andrea Brandino

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