La mia paziente, che si definisce ormai ex-anoressica, esordisce in seduta, parlandomi di quello che sta accadendo intorno alla questione alimentare, tra dibattiti e polemiche – per la verità assai più le seconde che i primi – su farine di grillo, carni sintetiche, vilipendio delle tradizioni culinarie italiane e così via.

Lei, che del cibo ha fatto un vessillo di amore mancato, lei, che, per parafrasare Lacan, si è rifiutata per anni di mangiare alla tavola dell’Altro, negando con il cibo in primis la relazione, adesso, dopo il profondo viaggio nei suoi inferi di controllo, rifiuto e autarchia emotiva, mi sembra una dolente paladina del versante simbolico del cibo, della sua componente culturale e sociologica, del suo lessico relazionale, che va ben oltre il puro nutrirsi.

E non si tratta solo di questioni psicologiche, o di antropologia di riti, usanze e tradizioni – il che già sarebbe non poco – si tratta anche di salute, perché l’intreccio tra natura e cultura, tra biologia, biografia dell’individuo e salute globale non è solo una ipotesi, è un dato di scienza, basato sulla evidenza che la salute non ha solo componenti meramente materiche e non dipende esclusivamente dal dato organico e somatico, ma riceve influenze potentissime e fattive da altre dimensioni che, pur di materiale avendo ben poco, sulla materia agiscono.

Nel caso del cibo, l’intreccio è fatale: veniamo alla luce e cerchiamo un seno a cui attaccarci, prima ancora che per succhiarne il latte, per ristabilire almeno una vestigia del contatto e del calore perduto, quando la ferita irriducibile della carne, della sua finitezza, si sia irrimediabilmente compiuta, nell’uscita del nostro corpo dal corpo della madre. Cosa c’è di più animale del succhiare il latte da una mammella turgida e cosa c’è di più divino di vedere stillare gocce bianche dalla tenerezza, che non basta l’ossitocina ad evocare, ma è fatta di un tessuto di sguardi, gemiti, piacere, carezze di pelle che dà origine alla prima relazione?

Siamo condannati all’altalena sempiterna tra corpo e anima e non se ne uscirà nemmeno entrando nel Metaverso. Il fatto che l’essere umano, anche nel rapporto con l’oggetto, sia sempre impegnato in un logos, che è irriducibile relazione, dà scacco alla dimensione animale: cibo, parola e relazione sono intrinsecamente connessi, nella storia del singolo, nelle tradizioni dei popoli. Anche dove la fame sembra un imperativo primario capace di ammutolire il riverbero della cultura, Levi-Strauss nota che nel solo passaggio da cibo crudo a cotto, avviene la fatale operazione simbolica che manipola la natura, la devia dalla sua immanenza di materia, la colora di significati.

Ma è da tempo che l’imperativo del consumo si sostituisce alla riflessione sulle sue conseguenze e questa forma mentis non abbandona nemmeno chi sostiene che l’adozione di carni sintetiche sarebbe una valida riduzione delle fonti di inquinamento, senza interrogarsi seriamente sulle ulteriori conseguenze di questi processi in termini ambientali e sanitari prima e culturali e simbolici poi. Così che ci ritroviamo costantemente nella rincorsa delle conseguenze che le pregresse scelleratezze tecniciste e utilitaristiche hanno prodotto e che viene gestita con rimedi della stessa fatta, imprigionati, per citare Weber, nella “gabbia d’acciaio della razionalità allo scopo”.

La vera questione riguarda la decapitazione di pensiero simbolico e di riflessione antropologica autentica, progressivamente perpetrata, a partire dalla modernità, nella classe politica come negli organismi sociali, nella dirigenza scolastica e nella cosiddetta informazione che, già di per sé, non ha nulla a che vedere con cultura e comunicazione. Allora pare importante dibattere anche sul parmigiano a crosta nera made in Usa, senza vedere che chi lo produce, ovunque si trovi, è l’erede emigrato di una antica tradizione parmense.

È la riflessione sulle radici delle cose e dei fenomeni a mancare, come manca del resto sempre più la conoscenza delle radici delle parole: così si parla senza sapere cosa si dice davvero e si agisce senza sapere cosa si fa. E di solito, per inciso, più che pensare e agire, ci si limita a giudicare e reagire.

La mia paziente va, io resto in studio, a pensare. Mi metto a scrivere questo post con la straniante e kafkiana sensazione del rischio di finire come Cassandra. Poi mi ricordo che siamo sotto Pasqua e, polemiche sugli agnelli a parte, la questione più scottante sarebbe quella di decidere una volta per tutte se sulla resurrezione dell’uomo abbia senso ancora interrogarsi.

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