Anche stavolta – 8 marzo 2023 – mi sono guardato bene dal presentarmi munito di mimosa al cospetto della mia platea familiare composta da due figlie e una moglie, tutte amatissime. Non l’ho mai fatto né mai lo farò, perché trovo insopportabile la retorica caramellosa attorno alla data celebrativa, come tutte le altre analoghe ricorrenze – seppure di impatto mediatico inferiore (festa del papà il 19 marzo, presunta data del decesso di San Giuseppe padre putativo di Gesù, o dei nonni il 2 ottobre; la giornata della Terra del 22 aprile o ancora – udite, udite – la Giornata mondiale della non violenza programmata per il 2 ottobre, sempre che nel frattempo non scoppi qualche altro conflitto) – in cui l’esibizione dei buoni sentimenti si mescoli con palesi intenti commerciali/consumistici.

La solita americanata a cui ci siamo assuefatti come ai “dolcetti/scherzetti” di Halloween (per inciso: 31 ottobre) o a considerare l’insapore polpetta nel panino come il massimo della gastronomia mondiale. Per quanto riguarda donne e mimose, un anniversario in cui non ci sarebbe nulla da festeggiare, in quanto riferito all’orrenda morte di un centinaio di operaie arse vive – forse il 1908 nella fabbrica tessile Cotton di New York, forse in un altro incendio del 1911, sempre nella Grande Mela – perché nessuno si prese la briga di salvare quelle poverette.

Ciò premesso, a mio avviso il punto da sottolineare è un altro: celebrare il ruolo della donna nella società in un certo giorno significa che tutti gli altri possiamo tranquillamente dimenticarcene? Insomma, un rituale per scaricare la coscienza di una società patriarcale che – tra l’altro – in questi ultimi decenni ha riassorbito significative aperture verso assetti più al matriarcale, riportando le lancette della storia almeno agli albori del secolo scorso. Quando il movimento femminile scopriva il valore di quella combattività che oggi le sue pallide epigoni rinnegano sostituendola con il buonismo del politicamente corretto, entusiasmandosi per conquiste graziosamente concesse dalla controparte maschile, tipo quote rosa.

La prospettiva entrista (non certo inclusiva) di un femminismo burocratico alla Lilli Gruber, per cui quello che conta è la bandierina piantata sulla mappa dei posti disponibili da parte di candidate donne. Sicché la femminilizzazione della società non si misura in termini culturali (i valori di sorellanza e mitezza mitigatori dell’aggressività del darwinismo sociale di un machismo rampante), bensì sulla carta di identità delle nuove entrate, anche se si tratta di caricature del mascolino – “più maschio del maschio” – delle donne in carriera che sgomitano nelle varie aree del potere.

Quanto innova la cultura manageriale bastone/carota la signora Lucia Morselli, ad di Acciaierie d’Italia, ex Arcelor Mittal, ex Ilva di Taranto, una fama di tagliatrice di teste, che continua a giocare nello stabilimento pugliese l’eterno ricatto inquinatore salute contro occupazione, sbandierando lo stato avanzato del piano ambientale promesso, mentre magistratura e ambientalisti la pensano in maniera diametralmente opposta? Dov’è il salto di qualità rispetto ai precedenti gestori, come i maschietti Riva “prendi i soldi e scappa” o gli indiani specialisti in deconsolidamenti finanziari e cassa integrazione a go-go?

Poi che dire delle donne di partito, con quel profilo rissaiolo alla Raffaella “te spiezzo in due” Paita o mellifluo alla Debora Serracchiani? Entrambe annunciate come rinnovatrici del gioco politico e poi rivelatesi cloni perfetti del peggiore politichese. Per non parlare della premier puffetta mannara furbissima nel giocare la partita del potere quanto lontanissima dallo schiudere, con quella sua voce baritonale assai più adatta alla caciara e alla minaccia che all’argomentazione pacata, finestre su un mondo liberato dalla millenaria dittatura gerarchico-patriarcale. Insomma, fascista.

Insisto: non è con la celebrazione di maniera di un giorno che invertiremo la tendenza per cui in questa stagione del tempo l’idea di un’effettiva emancipazione della donna svanisca in un orizzonte di belle parole. Pura ipocrisia, a cui non intendo accodarmi.

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