Sono le madri dei morti nel naufragio di Cutro che meritano di essere celebrate in questa festa della donna. Sono loro, lontane, forse in Afganistan, Pakistan, Siria o in qualche altro paese sfortunato ed abbandonato, ad aver accettato che un loro congiunto partisse rischiando tutto.

E non dobbiamo pensare che sia facile, per una mamma, dire “arrivederci” alla persona che si è messa al mondo. Ma quale alternativa c’è? Le parole indegne di Matteo Piantedosi non conoscono la disperazione di chi la guerra la vive tutti i giorni e preferisce lasciare che chi si ama scappi da un paese dove ad attenderlo c’è solo la morte.

Immaginiamo queste madri, composte nel loro dolore, salutare da lontano un affetto che non sono certe di rivedere. Quanta forza ci vuole? E’ questo quello che non traspare oggi dalla mera cronaca degli eventi, perché non si va aldilà del mare a indagare i motivi che stanno alla base di questo esodo. Né quelle che sono le ferite, impercettibili, della perdita che la guerra indubbiamente provoca.

Se ci fossimo riconosciuti negli altri, nelle vittime delle guerre, allora avremmo visto in lontananza queste madri intente a sostenere una famiglia senza padri. Pronte a fare la fila ad un posto di blocco in Afghanistan nascoste sotto un burka per cercare del mangiare. O le avremmo intravviste in fila, in Siria, fuori da qualche carcere o caserma, a cercare un congiunto ormai da anni inghiottito in una prigione. E ancora, in Africa, a scappare alla miseria che governi corrotti impongono alla loro gente creando un esodo di massa che, come un fiume, attraversa carceri nel deserto che sono inferni in terra.

Avremmo visto tutte queste madri, donne, sacrificate, prostrate e violentate – fisicamente o nell’animo. E non le avremmo declassate a semplici vittime anonime di guerre e fondamentalisti capaci solo di versare lacrime amare su delle bare che si aggiungeranno a un cimitero di color blu vasto come il mare.

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