“Cara Elly, va bene tutto ma sull’Ucraina non mi stai piacendo”. La signora che parla ha i modi diretti di chi nella vita è abituata a comandare. È il 7 dicembre, Elly Schlein ha appena ufficializzato la sua candidatura alla segreteria del Pd, quando partecipa ad alcuni eventi di Più libri più liberi, la fiera nazionale della piccola e media editoria alla Nuvola di Roma. Lo spazio di Robinson, l’allegato culturale di Repubblica, è pieno di curiosi, interessati ad ascoltare la giovane deputata, che corre per guidare il partito un tempo egemone tra i progressisti italiani. In quel momento nessuno punterebbe un euro (o due, come la quota per votare alle primarie) sulla sue possibilità di vittoria: quella candidatura viene raccontata quasi come un atto di testimonianza, utile soprattutto a rendere più interessante il percorso che porterà all’elezione di Stefano Bonaccini.

Eppure a seguire Schlein quel giorno sono in tanti, troppi. La sala è piena e c’è gente anche in piedi. Ci sono ragazzi che passano, buttano un occhio al piccolo palco e si fermano ad ascoltare, persone che hanno superato da tempo gli anta e quelle che a Milano sarebbero definite – senza offesa – sciure: signore ben vestite della borghesia cittadina. È una di queste che, alla fine del dibattito, decide di mettere in mostra una vis polemica fuori dal comune. “Elly, sulla guerra però non va bene così“, dice con un tono di voce abbastanza alto da farsi sentire. Un concetto ripetuto più volte per conquistare l’attenzione della giovane deputata. Schlein, da parte sua, tenta una replica: poche parole, prima di dirigersi velocemente verso un’altra sala, dove la attendono per la presentazione di un libro (Libere, di Martina Castigliani, edito da Paper First). Tre mesi dopo il tono incalzante e perentorio di quella sciura romana diventa uno dei primi dossier che Schlein dovrà affrontare da segretaria del Pd.

Oltre alle posizioni sul lavoro, sul cambiamento climatico, sulla diseguaglianze sociali, di genere e generazionali, la questione della guerra in Ucraina rischia di essere il primo delicatissimo bivio per quella che ha vinto a sorpresa le primarie. Una vittoria arrivata grazie al voto nei gazebo, che ha capovolto l’esito delle consultazioni tra gli iscritti. E questo la dice lunga sull’attuale stato di connessione col Paese della classe dirigente dem: i circoli votano un segretario che viene poi nettamente bocciato dalle primarie aperte. La battuta sul Pd che ha perso pure le sue elezioni interne è diventata abusata già nella serata di domenica. La verità è che fuori del partito, tra i non iscritti, c’è un mondo inesplorato di potenziali elettori. Quel mondo ha mandato un messaggio chiaro: tra l’usato sicuro Bonaccini e una candidatura di rottura come la Schlein preferisce quest’ultima. E magari non solo perché si tratta di una leadership moderna, fresca, che ha scelto di iniziare il testo della sua mozione usando queste cinque parole: “Giustizia sociale e climatica sono inscindibili“.

Temi toccati anche nella notte tra domenica e lunedì. Nel primo discorso post vittoria, Schlein ha parlato di transizione energetica, di salario minimo, di scuola pubblica, di tagli alla sanità e di “organizzare le opposizioni a difesa dei poveri“. Uno è stato il tema che la neo segretaria non ha minimamente toccato: l’invio di armi all’Ucraina. Un argomento divisivo anche dentro al suo partito ed è per questo che Schlein se ne è tenuta a debita distanza. Molto presto, però, la nuova inquilina del Nazareno sarà chiamata a sciogliere un nodo che appare cruciale per il futuro della sua leadership, per quello del partito che guida ma pure per il Paese: intende mantenere il Pd sulla stessa linea di Enrico Letta, completamente a favore del sostegno bellico del nostro Paese a Kiev? Oppure darà seguito a quello che sembra trasparire da alcune sue dichiarazioni pubbliche, critiche sui continui investimenti nel settore della Difesa e a favore degli sforzi dipliomatici? E qui va sciolto un interrogativo preliminare: sulle armi all’Ucraina come la pensa davvero la nuova segretaria del Pd?

In Parlamento, finora, non ha mai violato le indicazioni del partito. Il 14 dicembre scorso, alla Camera ha votato contro contro le risoluzioni presentate dal M5S e da Sinistra Italiana e Verdi. Posizione replicata il 24 gennaio, quando si è espressa a favore del decreto Ucraina, che consente al governo di inviare armi a Kiev senza passare per il Parlamento per tutto il 2023. In quell’occasione nel centrosinistra si erano create delle crepe, con Laura Boldrini, Nico Stumpo e Arturo Scotto che non avevano partecipato al voto. La stessa scelta presa da Schlein il 30 novembre, quando non aveva votato la risoluzione contro l’invio di armi presentata da Nicola Fratoianni, di Sinistra Italiana. Un gesto compiuto prima di prendere la tessera del Pd, anzi riprendere dopo l’addio del 2015, iscrivendosi al circolo della Bolognina, quello della svolta di Achille Occhetto, lanciando la sua corsa alla segreteria. In questo senso, dunque, è probabile che Schlein abbia deciso di non violare gli ordini di scuderia di un partito che si candidava a guidare.

Solo che adesso a dare quegli ordini di scuderia tocca a lei. Sulla guerra che tipo di ordini saranno? Come quelli di Letta, che ha schierato il suo partito al fianco della maggioranza di centrodestra? O più simili ai concetti che Schlein ha inserito nella sua mozione? “Il sostegno di tanti Paesi ha permesso all’Ucraina di continuare a esistere senza capitolare. Serve un maggiore sforzo politico e diplomatico dell’Unione europea, insieme ai nostri alleati e in seno alla Comunità internazionale, per creare le condizioni che portino ad un cessate il fuoco e all’avvio di una Conferenza di pace multilaterale che possa portare alla fine della guerra”, si legge in un breve passaggio contenuto nelle 33 pagine del suo programma. “Sosteniamo e sosterremo il popolo ucraino con ogni forma di assistenza necessaria a difendersi, per ristabilire il diritto internazionale e i principi su cui si fonda la convivenza pacifica fra i popoli – promette Schlein – Senza però rinunciare alla nostra convinzione che le armi non risolvano i conflitti, e che non possiamo attendere che cada l’ultimo fucile per costruire la via di una pace giusta”. Una linea espressa due giorni fa a La7: “Io ho sempre pensato che fosse giusto sostenere il diritto del popolo ucraino a difendersi, certo da pacifisca credo che non saranno le armi a mettere fine a questa guerra. L’Unione europea ha mostrato compattezza sul versante delle sanzioni, quello che invece è mancato è la politica estera di sicurezza comune. La voce dell’Ue sul protagonismo politico diplomatico si è sentita meno”, ha detto la deputata, prima di sottolineare di essere “molto contraria all’aumento della spesa militare lineare a cui stiamo assistendo in molti Paesi europei”.

Già nel marzo scorso, subito dopo l’invasione decisa da Vladimir Putin, Schlein confidava di provare qualche fastidio per la linea seguita dal governo di Mario Draghi, sostenuta ventre a terra dal Pd, sul fronte delle armi. “Per chi, come me, viene dalla cultura del disarmo, è un vero dilemma etico. Penso che la pace non si faccia mai con le armi. Ma non mi sento nemmeno di demonizzare chi ha risposto a una precisa richiesta della resistenza ucraina. Ciò che invece trovo preoccupante è la corsa al riarmo dell’Europa. La difesa comune dovrebbe servire a ottimizzare, a razionalizzare la spesa militare complessiva dei singoli Paesi, non ad aumentarla”, aveva detto in un’intervista a Repubblica, invitando il governo a “sostenere economicamente l’accoglienza familiare degli ucraini, invece di aumentare la spesa militare”. All’epoca, però, Schlein era ancora soltanto la vicepresidente della Regione Emilia Romagna, l’esecutivo Draghi era saldamente in carica, così come la segreteria di Letta: non era prevedibile un ritorno alle urne anticipato, con la sonora sconfitta del Pd, che le avrebbe poi aperto la strada del Nazareno.

È dunque possibile che alcune posizioni della parlamentare nata in Svizzera si siano fatte più sfumate negli ultimi mesi. Soprattutto adesso che è chiamata a guidare un partito dilaniato da anni di violente guerre intestine, balcanizzato da tribù che si fanno chiamare correnti e in grado di decapitare segretari in serie. In questo senso la questione della guerra può fare da acceleratore a un processo scattato con il voto di domenica. Dopo aver vinto le primarie, infatti, Schlein è chiamata a prendersi un partito in cui, come ha dimostrato il voto nei circoli, la sua componente è minoritaria. Come è minoritaria anche dentro ai gruppi parlamentari, composti dai deputati e senatori eletti dalle liste compilate dal vecchio segretario. Sull’Ucraina una linea che ricalchi quella di Letta metterebbe dunque in sicurezza i dissidi interni, ma potrebbe far perdere a Schlein una parte del sostegno popolare che l’ha premiata alle urne. In più metterebbe la nuova segretaria in una posizione che è la stessa di quella occupata dalla premier Giorgia Meloni.

Nel caso invece la neo segretaria volesse rivedere le politiche del Pd sulla guerra e sulle armi potrebbe creare le condizioni per una scissione, con l’addio al partito di quella parte che si dice riformista e liberale, corteggiata dai renziani già nella notte della sconfitta di Bonaccini. Non è detto che questa seconda ipotesi sia per forza un male per Schlein, che avrebbe il vantaggio di ereditare un Pd depurato da una quota di oppositori. E d’altra parte il voto dei gazebo sembra quasi auspicare un’ipotesi del genere: una leader di rottura, con posizioni di sinistra radicale, per chiudere definitivamente la parentesi renziana. In questo senso, però, c’è un’altra incognita: i rapporti di forza di Schlein coi colonnelli che l’hanno appoggiata. Da Dario Franceschini ad Andrea Orlando passando da Francesco Boccia, si tratta di gente che da tempo tiene in mano le leve di comando al Nazareno, decidendo le fortune e soprattutto le sfortune degli ultimi segretari. Sono questi i dirigenti che adesso Schlein dovrà gestire, senza farsi gestire. Sarà tutt’altro che semplice.

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