Capelli neri, occhiali calcati sul naso, sguardo fra il disincantato e il sornione: era così Antonio Virgilio Savona (1919-2009), uno degli animatori dell’indimenticato Quartetto Cetra. In questo piccolo ensemble aveva trovato anche l’amore: Lucia Mannucci, voce femminile aggraziata, ironica e pungente, fu compagna di vita e lavoro.

Era un fine intellettuale: produttore discografico, compositore, autore per l’infanzia, ma anche critico e polemista. Giovanissimo, negli anni bui 1939-1941, esercitò la critica musicale per Il Giornale dello spettacolo e scrisse per altri periodici, come Fronte unico, Il Corriere cinematografico, Conquiste d’Impero, Il telegrafo. Doveva essere pignolo: rassettò ordinatamente tutti i ritagli e li corredò di un indice. Un bell’aiuto per i posteri. Nel risistemare l’Archivio Savona-Mannucci, il figlio Carlo li ha riportati alla luce e li ha digitalizzati. Indi li ha affidati a un valente musicologo novecentista della Libera Università di Bolzano, Paolo Somigli, perché li pubblicasse, corredandoli di un saggio introduttivo.

La raccolta Oltre il Quartetto Cetra. A. Virgilio Savona (Firenze, Nardini, 2022) presenta gli scritti critici e giornalisti dei primi anni, ma anche quelli venuti dopo, fino al 1998; con in più una postfazione di Carlo Savona sull’Archivio. Le pagine di Virgilio Savona danno un quadro vivido della condizione culturale italiana negli anni del Fascismo. Per la musica, dice Somigli, il diavolo fu forse meno brutto di quanto non lo si sia dipinto: lo aveva già sostenuto Fiamma Nicolodi, l’egregia studiosa del Novecento scomparsa un paio d’anni fa. L’indole liberticida del regime fu meno feroce che in Germania, molti autori lassù proibiti restarono nei cartelloni italiani: non però Schönberg, che con le leggi razziali del 1938 fu messo al bando. Pare che anche jazz e swing venissero recepiti senza particolari restrizioni.

Virgilio manifesta una notevole apertura nel sostenere la “musica contemporanea”. Ama i compositori del passato, ma stravede per Stravinskij e deplora il conservatorismo di chi è preposto alla programmazione degli enti musicali. È modernissimo quando insiste sulla “formazione del pubblico”, quella che oggi, nei Dipartimenti universitari di musicologia, denominiamo “terza missione”. A tal fine, dice, è vitale il lavoro del critico musicale. Ma non lesina frecciate ai colleghi che demoliscono le musiche nuove sol perché non le comprendono. Ipotizza addirittura una separazione delle carriere: critici musicali di qua, compositori di là, per evitare ‘combines’ deleterie. Proprio un bel caratterino. Peccato che gli sfuggano i casi di chi, come Schumann e Casella, fu tanto critico quanto compositore.

Va però detto che, avviata la carriera di esecutore nel Quartetto Cetra, Savona depose la penna del critico: un bell’esempio di deontologia professionale. Fu affascinato dal jazz, propose riflessioni sulla cultura americana, ma nel 1940, a guerra scoppiata, forse per non essere tacciato di esterofilia, fece una mezza marcia indietro. La vis polemica non gli difetta neppure negli scritti sulla musica per il cinema: se la prende con chi, anche compositore di vaglia, non si cura del rapporto che l’arte dei suoni deve instaurare con l’immagine. Oltre a questi articoli, ce ne sono alcuni che Virgilio non rimise in ordine, conservati comunque nell’Archivio. Ma di continuo ne affiorano altri, che attendono d’essere catalogati e resi noti. Nessuno potrà farlo meglio di Carlo Savona. Contentiamoci per ora di questo bel libro curato da Somigli: lo si legge con piacere e s’imparano mille cose.

La formazione del pubblico sta a cuore anche a un docente dell’Università di Parma, il musicologo Paolo Russo. Nel volume In ascolto: mappe sonore per la Storia della musica (Lucca, LIM, 2022) persegue un lodevole intento: condurre chi non disponga di conoscenze musicali avanzate ad apprezzare autori e brani fra i più significativi del repertorio musicale occidentale, da Josquin a Verdi, da Corelli a Berio, da Monteverdi a Varèse. E ciò senza rimandi alla partitura scritta, bensì sulla base del semplice ascolto. Le musiche analizzate sono inserite in una playlist su Spotify, intitolata per l’appunto “In ascolto”, e i dati strutturali vengono individuati mediante il minutaggio.

Il libro non è una “storia della musica” consueta, non svolge un discorso approfondito su luoghi, istituzioni, contesti: lo fa all’occasione, con levità, in maniera puntuale sì, ma senza sfoggi di erudizione. Russo ha dovuto operare delle scelte. Ha cercato di mediare fra musiche diffuse nella programmazione concertistica corrente, il ruolo ch’esse ebbero nella cultura dell’epoca, e “la gestione pratica della loro analisi in uno spazio ragionevole”: il che vuol dire suppergiù un capitolo di 6-7 pagine per ciascun brano. Per forza di cose restano tagliate fuori opere straordinarie come gli ultimi quartetti di Beethoven o il grandioso finale del second’atto nelle Nozze di Figaro: la carta stampata non può fare di più. Il libro, utile, può essere messo a frutto anche dal docente come ausilio per le lezioni o le esercitazioni in classe.

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