Alla fine, se mai ci sarà, la “transizione verde” la pagheremo noi. Fondi sovrani, aiuti dei singoli stati, sussidi, incentivi, crediti agevolati, prezzi finali più alti. La formula importa relativamente poco. Il succo è che i cittadini, già alle prese con i costi in bolletta della guerra, sono chiamati a metter di nuovo mano al portafogli per sgombrare il cammino delle aziende verso un modello produttivo che si spera possa raggiungere la sostenibilità ambientale. Negli Stati Uniti è stato varato un piano di aiuti pubblici da 370 miliardi di dollari. L’Europa cerca di fare lo stesso sebbene non sappia bene in che modo: se dare mano libera ai singoli stati per erogare aiuti o se cercare di coordinare stanziamenti comuni. Nel primo caso ciascun paese agirebbe in base alle proprie possibilità, con il rischio di “frammentare” l’industria europea. Mentre le discussioni su come aiutare le imprese procedono faticosamente, i colossi petroliferi hanno diffuso i loro risultati 2022.Un’annata straordinaria, favorita dal boom delle quotazioni del gas dovuto alla guerra in Ucraina. I profitti sono raddoppiati e in più di un caso sono stati i più alti della storia. La statunitense Exxon ha riportato utili per quasi 56 miliardi di dollari, Chevron profitti per 36 miliardi. Le inglesi Shell e British Petroleum rispettivamente di 40 e 28 miliardi, la francese Total 20 miliardi di dollari. È lecito chiedersi se non si potrebbero intaccare un po’ questi guadagni stratosferici per alleviare un po’ lo sforzo che grava sui cittadini per finanziare la transizione.

Dove finiranno questi soldi? Verranno utilizzati per accelerare lo sviluppo di energie rinnovabili o rendere meno impattante l’uso protratto di idrocarburi? No. In larghissima parte verranno distribuiti ai soci, i principali sono quasi sempre grandi società finanziarie. Vista la manna che non piove dal cielo ma sgorga dai giacimenti, British Petroleum ha deciso di ritardare il suo allontanamento dalle fonti fossili. Il giorno in cui lo ha annunciato il titolo ha guadagnato in borsa più dell’8%. Shell ha annunciato che fermerà l’incremento degli investimenti in rinnovabili. A fronte dei 75 miliardi di dollari che distribuirà ai suoi azionisti, Chevron pianifica investimenti in progetti a bassa emissione di carbonio per appena 2 miliardi di dollari. Insomma dal boom di profitti di benefici per l’ambiente non arriva niente, anzi il contrario. Eni (a sua volta con utili record a 13,3 miliardi di euro) e il governo italiano si trastullano con il “piano Mattei” che, se mai ricevesse il placet di tutte le potenze che hanno interessi nell’area, significherebbe sviluppare ulteriormente l’uso di gas e petrolio. Sin dagli anni Cinquanta le compagnie petrolifere erano ben consapevoli delle ricadute sul clima derivanti dal massiccio utilizzo di fonti fossili. Hanno chiuso gli studi nei cassetti e sono andate avanti come se nulla fosse. Al di là delle belle parole non c’è nessuna reale intenzione di smettere di investire nel gas e nel petrolio.

Chissà, forse, visto che come rileva più di un economista il mercato sta drammaticamente fallendo nel prezzare correttamente le ricadute ambientali dei processi produttivi, un intervento esterno che imponesse di destinare parte di questi guadagni al finanziamento dei fondi per la transizione verde non sarebbe cosa così campata per aria. Ma è troppo complicato, vista anche la potentissima azione di lobbying che queste aziende sono in grado di esercitare sui legislatori e la difficoltà di coordinare un intervento su scala globale. Molto più facile attingere ai soldi delle famiglie. Sui cittadini è stata peraltro riversata la strategia comunicativa dell’ “impronta di carbonio” per cui ad ognuno di noi è attribuita una piccola dose di responsabilità per l’inquinamento discolpando viceversa le imprese. Le compagnie petrolifere hanno grandi responsabilità ma non sono certo gli unici soggetti imputabili per l’inquinamento dell’atmosfera. Producono sostanze che sono richieste e utilizzate da tutti, che muovono auto e industrie e generano elettricità. È positivo che l’impegno per un uso più consapevole e oculato delle risorse sia comune a tutti, persone e aziende. Ma l’impressione è che alle imprese venga chiesto in fondo davvero molto poco. Certo, i permessi per le emissioni, un mezzo flop, si pagano. Ma alla fine questi costi finiscono nei prezzi finali. Siamo così al solito meccanismo della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti che abbiamo visto in opera in tutto il suo splendore dopo la crisi finanziaria globale iniziata nel 2008 e che vedremo moltiplicata al cubo per la crisi climatica.

Un altro esempio è quello dell’industria dell’auto, molto molto attiva nel chiedere ai governi di finanziare il passaggio verso motorizzazioni più sostenibili. Eppure, anche qui, i profitti non mancano. Si vendono meno auto ma che costano di più. La franco-italiana Stellantis ha chiuso il 2022 con 16,8 miliardi di euro di profitti ma, forte delle capacità di ricatto occupazionale, continua a chiedere a tutti gli stati in cui è presente sussidi pubblici per aprire stabilimenti per la costruzione di vetture elettriche e fronteggiare la concorrenza di marchi cinesi e statunitensi. Il più importante produttore europeo, la tedesca Volkswagen ha riportato profitti annuali da 22 miliardi. Come noto la casa automobilistica fu la principale protagonista, ma non certo l’unica, dello scandalo sulle emissioni truccate. Ora i cittadini tedeschi finanzieranno il suo sforzo per diventare più sostenibili. In generale l’industria delle quattro ruote bucherà quasi certamente gli obiettivi di riduzione delle emissioni previste dagli accordi internazionali siglati a Parigi nel 2015 visto che è già del 75% al di sopra di quanto previsto dai trattati.

Noi cittadini italiani paghiamo da anni in bolletta i cosiddetti oneri di sistema che pesano per circa il 20% della spesa. Sono soldi destinati a finanziare energie rinnovabili, sistema ferroviario e industrie energivore (siderurgie, cartiere, etc). In generale per l’industria essere meno inquinanti significa di solito costi più alti (che comunque possono essere almeno in parte traslati sul prodotto finale o recuperati da altri voci di spesa). Qualcuno si ricorda una multinazionale che si sia presentata agli analisti affermando: “Quest’anno rinunciamo a distribuire i soldi guadagnati grazie alla nostra attività inquinante per destinarli alla lotta ai cambiamenti climatici”? Non è solo questione di buone intenzioni, chi lo facesse verrebbe massacrato dai mercati e il titolo crollerebbe in borse. Le regole sono queste e non si può sfuggire. A meno che non si intervenga dall’esterno. Il problema è che ciò dovrebbe avvenire su scala internazionale, diversamente i paesi più permissivi potrebbero avvantaggiarsene. Le normative occidentali sono state più severe di quelle cinesi o di quelle di altri paesi meno avanzati. Ma questo conta poco per una multinazionale che può spostare la sua produzione dove preferisce. Un supporto degli stati è necessario, ma non stiamo un po’ esagerando nell’esentare le aziende dalle loro responsabilità verso la collettività?

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