Tra le crisi del XXI secolo, quella dell’acqua è una delle più gravi e urgenti da affrontare. Nel mondo, circa due miliardi di persone non hanno un accesso sicuro all’acqua potabile e circa 1,7 miliardi non dispongono neppure dei servizi igienici di base. Nei paesi poveri parlare di emergenza idrica è un ossimoro, poiché la questione è permanente, effettiva e assoluta. La scorsa estate ha messo però a nudo la vulnerabilità crescente di aree avanzate del pianeta, come la California e l’Italia settentrionale. Per contro, la mitigazione del rischio di siccità richiede una visione di medio e lungo periodo che manca alla politica e all’economia, alla narrazione mediatica e alla società civile.

A fine gennaio, l’equivalente idrico del manto nevoso lombardo era meno della metà della media storica recente, così come il volume utile dei laghi prealpini; e le dighe, meno colpite dal prolungato periodo secco, invasavano comunque solo il 70% della norma. La situazione piemontese non era più rosea, anzi il deficit pluviale e nivale anche più pesante. Non si possono quindi escludere, almeno per l’Italia Nord Occidentale, scenari idrici simili a quelli osservati nel 2022.

Come ho scritto negli Stati Generali dell’Acqua (a cura di Daniela Padoan, Roma: Castelvecchi, 2022) le cause lontane del ricorrente travaglio italiano sono molteplici. Tra queste:

1. Il deficit di capacità d’invaso, legato alla mancata programmazione delle opere di accumulo negli ultimi 50 anni, allo stato di abbandono dei piccoli serbatoi collinari e, soprattutto, alla mancata manutenzione dei più di 500 grandi laghi artificiali, utile a evitarne il naturale interrimento, contenere l’erosione valliva e litoranea, proteggere gli ecosistemi.

2. L’uso di tecniche irrigue arretrate e inefficienti, nella convinzione che i metodi irrigui introdotti nel XIX secolo da Camillo Benso Conte di Cavour e da Quintino Sella, ingegnere idraulico, siano un invariante della storia, un perenne modello di produttività, benessere e sviluppo; e senza riflettere che si tratta dell’unico uso irreversibile della risorsa acqua di cui dispone una comunità.

3. Una evoluzione strabica delle specie coltivate, condotta con i soli occhi del supermercato e della pubblicità, senza alcun riguardo alla loro impronta idrica: il riso utilizza più di 18mila metri cubi d’acqua per ettaro di superficie irrigata, la patata poco più di mille.

4. La disattenzione verso la disponibilità di acque di raffreddamento delle centrali termoelettriche, nonostante la stessa agenzia nazionale, Arera, controlli i mercati dell’energia e dell’acqua. E l’assoluta indifferenza di tutti nei confronti di un bilancio sostenibile tra acqua, cibo ed energia.

5. L’inquinamento delle acque sotterranee, soprattutto di origine agricola ma anche civile e industriale, senza alcun riguardo alla salvaguardia della loro qualità, quando il 48% delle acque prelevate a scopi civili viene emunta dai pozzi scavati in falda e il 36 dalle sorgenti.

6. In campo civile e idropotabile, il degrado delle reti di distribuzione, soprattutto cittadine, legato alla loro obsolescenza e condizionato dal conflitto tra sostituzione dei tubi e circolazione stradale, giacché l’Italia ha il record europeo dei prelievi, 156 metri cubi all’anno contro 62 in Germania e 84 in Francia, ma i consumi effettivi sono affatto confrontabili.

7. Il ritardo nel riciclo e nel riuso dell’acqua di depurazione, nonostante dai depuratori defluiscano più o meno 9 miliardi di metri cubi acqua ogni anno, mentre si usa l’acqua potabile per lavare i piazzali e gli automezzi, irrigare i parchi, raffreddare gli impianti produttivi, tutte attività idonee al riuso di acque riciclate.

8. La rovina culturale, dove il sapere tecnico è stato scalzato dal tallone burocratico, dalla ragioneria finanziaria e dalla volontà politica, tutti proni alla religione del breve termine; una visione che allontana l’acqua dal cuore e dal bilancio delle amministrazioni pubbliche.

Ho scritto, detto e ripetuto queste cose anni fa. E le ho ribadite lo scorso anno, con il settentrione assetato. Può darsi che qualcosa manchi. Può darsi che qualcosa sia di troppo. Può darsi che qualcuno di questi punti sia del tutto contestabile, discutibile o astruso. Ma sarebbe interessante sapere quanto i governanti dell’acqua — le istituzioni che gestiscono il ciclo dell’acqua alle diverse scale, geografiche e politiche del nostro paese — abbiano fatto o, perlomeno, pianificato e previsto per voltare pagina. E sanare qualcuna di queste ferite.

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