Una ricerca di Amnesty International, pubblicata mercoledì scorso, ha fatto luce su una prassi che la dice lunga sulla discriminazione cui sono sottoposte, nello Yemen, le donne che vivono tanto nei territori controllati dal governo riconosciuto a livello internazionale quanto nelle aree sottoposte all’amministrazione del gruppo armato huthi.

Le detenute che hanno terminato di scontare la pena restano in carcere in assenza di un “guardiano” che si prenda cura di loro o, nella migliore delle ipotesi, vengono trasferite nei rifugi femminili qualora le famiglie rifiutino di riprenderle a casa. Come funziona questo sistema, lo ha raccontato un ex direttore di una prigione gestita dagli huthi nella capitale Sana’a:

“Se non arriva il ‘guardiano’ le detenute non possono essere scarcerate. Una è ancora dentro da cinque anni, un’altra ha atteso due mesi fino a quando non si è fatto vivo il figlio. Nel 2019 un padre si è presentato a prendere la figlia, poi una settimana dopo l’ha ammazzata”.

“La legge vieta che si rimanga in carcere dopo aver scontato la pena, a prescindere dal genere delle persone interessate. Trattenerle non ha alcuna base legale, ma qui funziona così: sono le norme sociali”, ha commentato un avvocato.

“Radiya” (per ragioni di sicurezza usiamo un nome di fantasia), ha finito di scontare la pena nel 2022 ma nessun “maschio di casa” è venuto a prenderla.

Perché era in carcere? Nel 2021 era stata stuprata da un vicino e la famiglia del marito l’aveva denunciata alle autorità per adulterio. Processata, era stata condannata a un anno di carcere. Il marito aveva chiesto e ottenuto il divorzio, la sua famiglia l’aveva ripudiata. La direzione della prigione centrale di Ta’iz ha trasferito “Radiya” al Centro per la protezione e la riabilitazione delle donne e delle ragazze, dove si trova da sette mesi.

Ecco cos’ha raccontato ad Amnesty International:

“Sono finita in carcere perché ho subito uno stupro. Mi hanno mandata al rifugio perché mio marito aveva divorziato da me e la mia famiglia non mi voleva riprendere. Mi sento oppressa e triste. Ho perso i miei figli e mio marito, la mia famiglia mi ha abbandonata. Sono depressa. Non ho un altro posto dove andare. Spero, un giorno, di andare via da qui, trovare un lavoro e iniziare una nuova vita”.

Nel rifugio di Ta’iz, inaugurato nel 2020, sono transitate in tutto 23 donne che avevano terminato di scontare la loro pena. Ora, con “Radiya”, ce ne sono altre sei. Due sono nel centro di Adan e tre in quello di Sana’a. Questi centri offrono una speranza concreta di ricominciare da capo: mettono a disposizione programmi di riabilitazione e corsi di avviamento professionale e cercano, anche se spesso con scarso successo, di far riconciliare le famiglie con le ex detenute, affinché queste possano tornare a casa.

Quando le ex detenute sono pronte a tornare a una vita normale, resta da superare l’ultimo ostacolo: il benestare della direzione delle carceri.

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