Lo ricorderemo mentre snocciola davanti ai microfoni affermazioni razziste, misogine o antisemite, c’è l’imbarazzo della scelta. Per quella foto impettita, occhiale scuro e camicia straripante, in posa con la Nazionale alla vigilia di Euro 2016, forse il momento più alto della sua carriera. E quella storica, tragicomica conferenza stampa d’addio dopo la Svezia. È morto all’età di 79 anni Carlo Tavecchio. Il presidente di Optì Pobà e della mancata qualificazione ai Mondiali, ma anche dirigente di calcio preparato e, alla fine, forse persino rimpianto.

Classe 1943, originario di Ponte Lambro, provincia di Como, politico di vecchio stampo democristiano, Tavecchio ha scritto a suo modo un pezzettino della scalcagnata storia del nostro calcio. Dal suo feudo lombardo, è arrivato a scalare l’intero sistema, per poi ritornare al punto di partenza, dove è morto in carica da presidente del Comitato regionale. Eterno, cocciuto, l’impresentabile per eccellenza. In mezzo ci sono stati circa tre anni da numero uno della Figc, ruolo ricoperto in modo un po’ imbarazzato e a volte imbarazzante. La sua avventura è iniziata con la famosa gaffe di Optì Pobà nell’assemblea in cui di fatto annunciava la sua candidatura, è proseguita con un’inibizione di sei mesi da parte della Commissione etica della Uefa, è passata per la controversa riconferma nel 2017, sempre sostenuta dal suo fido alleato Claudio Lotito, e alla fine, tra scandali e scandaletti vari, affari immobiliari e libri scritti da lui e acquistati dalla federazione, si è conclusa nel peggiore dei modi, col disastro Mondiale di Ventura e l’addio, inevitabile.

Durante la sua gestione, gliene abbiamo dette e scritte di tutti i colori. Col senno di poi, però, quasi è mancato al calcio italiano. Col suo pragmatismo un po’ campagnolo, era un presidente fattizio. È stato colui che ha portato in Italia il Var, sostenendo tra i primi anche a livello internazionale l’avvento della tecnologia. Aveva provato a scrivere delle norme per la valorizzazione dei giovani italiani in rosa, evidentemente insufficienti, e ad aprire i centri federali, altro progetto mai decollato (anzi, trasformatosi nell’ennesimo carrozzone all’italiana), che però andava nella direzione giusta. Ha introdotto i primi paletti per la sostenibilità finanziaria e i passaggi di proprietà (anche qui, niente di risolutivo, ma il segnale era positivo). Ha portato Antonio Conte sulla panchina della Nazionale, con un contratto innovativo e pagato in buona parte dagli sponsor.

Si può dire che abbia fatto forse no, ma almeno tentato di fare, molto di più di quelli che lo avevano preceduto o sostituito, e che magari piacciono tanto ai media. Ed è anche uno dei pochi ad essersi dimesso in Italia: dimissioni non proprio spontanee (furono di fatto forzate dal Coni di Giovanni Malagò e dai suoi ex alleati), ma comunque presentate, a differenza di chi ha fatto anche peggio di lui (non qualificandosi di nuovo ai Mondiali ma con un girone molto più semplice) e si è tenuto la poltrona come se nulla fosse. E forse non è un caso che nel momento del bisogno, il mondo del pallone era tornato di nuovo da lui, richiamandolo alla guida del vecchio Comitato lombardo, o proponendogli nelle scorse settimane addirittura la presidenza della Serie C. In Italia tendiamo sempre a trasformare i morti in santini. Carlo Tavecchio lo avevamo riabilitato già da tempo.

Twitter: @lVendemiale

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