Fermare le intercettazioni, depotenziandole o limitandone l’uso. Oppure, se proprio non ci si riesce, impedire che i loro contenuti vengano diffusi sui media. L’assalto lanciato da Carlo Nordio, ministro della Giustizia del governo Meloni, è solo l’ultimo di una lunga e ossessiva crociata portata avanti dalla politica. Da vent’anni governi di ogni orientamento provano – per fortuna quasi sempre a vuoto – a smantellare lo strumento tecnico più importante che la magistratura ha a disposizione per le indagini, o a punire i giornalisti che riportano il contenuto di conversazioni citate negli atti (non segreti). E se Nordio – per ora – si è limitato agli annunci, i suoi predecessori hanno sempre partorito appositi disegni di legge. Solo uno di questi, la riforma Orlando, è stato approvato in via definitiva, ma altri ci sono arrivati molto vicini. Vediamoli.

Berlusconi-Castelli: ascolti solo per tre mesi – È il 9 settembre 2005 quando il governo Berlusconi III vara un ddl sulle intercettazioni firmato dall’allora premier e dal suo Guardasigilli, il leghista Roberto Castelli. A scatenare la furia dell’uomo di Arcore è la pubblicazione dei nastri dell’inchiesta sui “furbetti del quartierino“, in cui viene chiamato in causa dall’immobiliarista Stefano Ricucci. Ma l’intercettazione più famosa di quella stagione viene pubblicata pochi mesi più tardi: è il 31 dicembre 2005 quando proprio Il Giornale della famiglia Berlusconi pubblica le conversazioni tra Giovanni Consorte, numero uno di Unipol, e il segretario dei Ds Piero Fassino: i due parlano della scalata di Unipol a Bnl. “Abbiamo una banca?” è la frase di Fassino che finisce sul foglio della famiglia del premier e scatena la tempesta politica sul segretario Ds. La conversazione – mai trascritta né depositata agli atti dalla Guardia di Finanza – è del 18 luglio di quello stesso anno e diventerà oggetto di un processo per concorso in rivelazione del segreto di ufficio e ricettazione in cui Silvio Berlusconi verrà condannato in primo grado a un anno di reclusione – due anni e tre mesi al fratello Paolo – e infine prescritto nove anni più tardi. Con buona pace del testo Castelli che disponeva il divieto di pubblicazione anche ”parziale o per riassunto o nel contenuto” anche degli atti non più coperti dal segreto investigativo (cioè quelli a disposizione delle difese) fino alla conclusione delle indagini preliminari. E prevedeva sanzioni fino a cinquemila euro per i giornalisti e fino a un milione e mezzo per gli editori che non si fossero adeguati. La norma prevedeva poi una durata massima di tre mesi alle captazioni e obbligava i pm ad avvisare con raccomandata i non indagati quando depositava intercettazioni in cui compariva la loro voce. Le parole dell’epoca di Castelli sembrano prese dalla cronaca di oggi: “Intendiamo evitare gli abusi, non limitare la libertà di stampa”. Il provvedimento non arrivò mai nemmeno in Aula: rimase bloccato in Commissione al Senato fino alla fine della legislatura.

Mastella: censura totale all’unanimità – Passano pochi mesi, cambia la maggioranza ma non la musica: il 4 agosto 2006 il governo Prodi II dà il via libera al ddl Mastella, la censura più audace mai concepita nei confronti dell’informazione giudiziaria. Il disegno vietava la pubblicazione di “testo”, “riassunto” e “contenuto” di tutti gli atti d’indagine fino all’inizio del processo, e per quanto riguarda gli atti che rimangono nel fascicolo del pm (cioè quelli non acquisiti al dibattimento) addirittura fino alla sentenza d’appello: un black-out informativo lungo anni. Le multe per il cronista che avesse violato i divieti sarebbero diventate pesantissime: da un minimo di 51 e un massimo di 258 euro si sarebbe passati a un minimo di diecimila e un massimo di centomila euro. Sulle intercettazioni poi era previsto il bavaglio totale: la pubblicazione, anche del solo contenuto, sarebbe stata sempre vietata. Questo ddl sarà incredibilmente approvato quasi all’unanimità dalla Camera il 17 aprile del 2007: votano a favore tutti i partiti e il provvedimento passa con 447 sì, nessun no e nove astenuti. Durante l’iter al Senato, però, nel neonato Pd iniziano a sorgere dei dubbi e il testo rallenta: la caduta del governo a inizio 2008 lo affosserà definitivamente.

Alfano: per intercettare servono le prove – Si arriva al quarto governo Berlusconi, che subito rimette il tema in cima all’agenda con il nuovo ministro della Giustizia, Angelino Alfano. Il suo ddl sarà approvato sia dalla Camera (a giugno 2009) sia dal Senato (un anno esatto dopo), ma con alcune modifiche che gli impediranno di diventare legge. La versione licenziata da palazzo Madama prevedeva che per poter intercettare il pm dovesse portare non solo gravi indizi, ma anche elementi di prova a carico degli indagati: un modo per rendere inservibile lo strumento, che per sua natura è esso stesso un mezzo di ricerca della prova. Ad autorizzare gli ascolti poi non sarebbe stato più un gip ma un collegio di tre giudici. Di nuovo si volevano imporre limiti di durata: al massimo 75 giorni, dopodiché per ottenere le proroghe (fino a un massimo di un anno) il pm avrebbe dovuto chiedere una nuova autorizzazione ogni tre giorni. E ai giornali si impediva di riportare contenuti di intercettazioni (anche citati in atti non segreti) fino al termine dell’udienza preliminare. Anche in questo caso, a rileggere i lanci di agenzia con le parole di Alfano sembra di sentir parlare Nordio: “Le intercettazioni sono state poco efficienti, poco riservate e troppo costose. Vogliamo che finisca il cattivo costume di vedere registrate e lasciate agli atti telefonate che nulla hanno a che fare con le indagini per poi vederle, per giunta, pubblicate sui giornali”.

I “saggi”: “Il diritto all’informazione? Un pretesto” – Berlusconi e i suoi proveranno a far approvare il bavaglio anche sotto il governo Monti, cercando di barattarlo con l’ok alla legge Severino. Ma l’iter si bloccherà definitivamente nel secondo passaggio a Montecitorio. Il tema torna a far discutere agli esordi della legislatura successiva: nella relazione finale del gruppo dei “dieci saggi, nominati dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per sbloccare lo stallo istituzionale, si proponeva di “porre limiti alla divulgazione delle intercettazioni perchè il diritto dei cittadini a essere informati non costituisca il pretesto per la lesione di diritti fondamentali della persona”. Il centrodestra prova a riproporre in Parlamento copie carbone dei ddl Mastella e Alfano, ma senza successo.

La riforma Orlando e il tentato carcere ai cronisti – Così le armi tacciono fino al 2017, quando – sotto il governo Gentiloni – viene approvata la legge delega che porta la firma del Guardasigilli Pd Andrea Orlando. Nello schema di decreto delegato, tra le altre cose, si cercherà di impedire ai magistrati di citare tra virgolette i contenuti delle intercettazioni in tutti gli atti precedenti alla fase dibattimentale. Questa singola norma sarà poi modificata e nel testo finale sarà consentito di riportare “brani essenziali” e “quando necessario”. Ma nella riforma Orlando c’erano altri contenuti scivolosi, come l’attribuzione alla polizia giudiziaria (e non al pm) del compito di decidere quali fossero i brani “rilevanti” da trascrivere e la previsione del carcere fino a tre anni per i cronisti che pubblicassero intercettazioni stralciate. Quella legge sarà bloccata dal governo Conte I ed entrerà in vigore solo nel 2020, dopo una profonda revisione per eliminare gli aspetti più controversi. Ora però per le indagini e il diritto di cronaca sono in arrivo altri tempi bui.

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