“Questo è per te”. A darmi il “santino” con la fotografia di Biagio Conte è una donna di colore in piedi accanto a me, durante l’addio nella cattedrale. Qualche minuto prima un’altra donna, sempre africana, l’ha tirato fuori dalla borsa e l’ha guardato per qualche minuto. Per qualche istante ho pensato: “Mi piacerebbe averne uno”. Nemmeno il tempo di fare questo che improvvisamente, me lo son trovato in mano. Coincidenze.

Se fossi credente forse oserei dire un “piccolo miracolo”. Uno dei tanti che ha fatto fratel Biagio. Quando si pensa alla santità vengono in mente quelli sul calendario: papi, madre Teresa di Calcutta. Biagio non era “nessuno”. Non era un prete. Non era consacrato. E’ stato uno tra noi (non di noi) che ha scelto di essere santo. Martedì c’era tutta Palermo a ringraziarlo: diecimila persone. Ho visto insieme, uno accanto all’altro, senza distinzioni autorità, tanti giovani, anziani, gente in giacca e cravatta e uomini con i rasta. E persino un vescovo, quello di Palermo, don Corrado Lorefice che mentre parla di Biagio, durante l’omelia, è costretto a fermarsi e piangere. Mai visto un monsignore in lacrime.

Eppure, quando arrivai per la prima volta a Palermo nel 1995, ricordo che Biagio era considerato da tutti uno un po’ pazzo: “E’ matto, ma fa del bene”. Quel saio verde, quei suoi occhi sempre vivi, quel suo sorriso disarmante a qualcuno appariva ingenuo e spiritato. Ce ne fossero di folli come Biagio, il san Francesco del nostro millennio.

Biagio, figlio di imprenditori, nel 1990 aveva mollato tutto ed era fuggito tra i boschi per poi andare a piedi fino ad Assisi. Una pazzia. Tornato a Palermo nel 1991 scelse di stare non dalla parte dei poveri, ma con i poveri condividendo la loro vita alla stazione. Due anni dopo, l’allora sindaco Leoluca Orlando, gli concesse l’uso dell’ ex disinfettatoio comunale dove iniziò ad accogliere chi non aveva un tetto. Per Biagio iniziò la missione nella sua terra.

L’ho incontrato più volte in via Decollati. Era l’immagine vivente di un santo: dormiva in una roulotte; talvolta a terra tra i suoi poveri. Ogni giorno riusciva, miracolosamente, a dare un piatto e un letto a cento, duecento, trecento persone. Se doveva far sentire la sua voce, protestare per i poveri lo faceva con l’arma del digiuno. Martedì in cattedrale c’era una bara di legno semplice realizzata dalla sua gente. Sopra solo il Vangelo.

Fratel Biagio non se n’è andato. Chi non l’ha conosciuto da vivo lo può fare ora, magari guardando il fim di Pasquale Scimeca. Martedì, mentre salutavamo fratel Biagio, due clochard a Roma morivano per freddo. Ora tocca a noi essere un po’, anche solo un pochino, fratel Biagio. Anzi, lo dico da maestro: parliamo tanto di educazione civica. Si faccia una cosa: si racconti ai ragazzi, di ogni scuola, di fratel Biagio Conte.

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