La ‘ndrangheta ha perso (da tempo) il mito della impenetrabilità, si moltiplicano i collaboratori di giustizia, cioè gli affiliati che decidono di affidarsi allo Stato, raccontando quello che sanno. L’ultimo caso (noto) è stato puntualmente descritto in un lungo e documentato articolo di Davide Milosa su ilfattoquotidiano.it e riguarda un personaggio appartenente alla ignobile aristocrazia mafiosa trapiantata al Nord, trattasi del “picciotto” Rosi Barbaro, strettamente imparentato con i Papalia di Buccinasco.

Sono, come al solito, tanti gli spunti riflessione che l’articolo illumina, ma a me interessa sottolinearne soltanto uno, nella speranza che serva anche a quanti oggi rischiano un approccio sbagliato ad uno degli istituti giuridici fondamentali per la tenuta della democrazia (niente meno!) e cioè il 41 bis, il così detto (erroneamente) “carcere duro”.

Nell’articolo ad un certo punto si riporta un brano della verbalizzazione di Barbaro relativo alla detenzione in carcere, vi si legge: “AlessandroManno appartiene alla Locale di Pioltello come Capo Locale. Ci rispettavamo in carcere e ci teneva tanto all’amicizia nostra; lui voleva che facessimo gruppo e fossimo dei referenti degli altri detenuti calabresi in carcere nella nostra sezione sulle eventuali liti, discussioni o spostamenti di detenuti nelle celle. Manno era dell’idea di mantenere lo stesso controllo in carcere, ad esempio in relazione alle introduzioni di stupefacenti da parte di altri detenuti: il Manno voleva che fosse evitato per non incorrere in alcun tipo di disordine, oppure voleva dire la sua sui legami con nuovi soggetti calabresi che vi entravano; Manno voleva affermare il potere dei detenuti calabresi sugli altri. Rivendicava la forza della sua appartenenza alla ‘ndrangheta, anche per dirimere controversie all’interno del carcere; noi la pensavamo diversamente e non volevamo fare come lui che ipotizzava di gestire il carcere in questo modo”.

Da questo “spaccato” si evince bene quale sia l’obiettivo perseguito dal 41 bis e in particolare dal suo secondo comma, quello introdotto dopo le stragi del 1992: impedire ad un detenuto, condannato per gravi delitti ed appartenente ad una organizzazione criminale, sia essa mafiosa o terroristica con finalità eversive, di avere rapporti dentro e fuori dal carcere che gli consentano di continuare ad esercitare la propria illecita funzione.

Una situazione che evidentemente presuppone sia l’esistenza di una organizzazione criminale stabile, pericolosa per l’ordinamento democratico e per la sicurezza pubblica e sia un rapporto altrettanto stabile, riconosciuto e riconoscibile tra il detenuto e la medesima organizzazione.

E’ perciò improprio definire il regime carcerario di cui al 41 bis dell’ordinamento penitenziario “carcere duro”, perché così facendo si rischia di far credere che il 41 bis nasca come pena aggiuntiva alla semplice detenzione e quindi con una finalità ulteriormente afflittiva. Quasi che fosse in gioco la più arcaica delle leggi, “occhio per occhio, dente per dente”, in base alla quale tanto più sei stato cattivo, tanto più duramente sarai punito.

Niente di tutto questo. Il regime carcerario del 41 bis nasce per impedire la prosecuzione dell’attività criminale, isolando il detenuto che si ritenga portatore di un sodalizio illecito, attuale e pericoloso. Il crimine organizzato, sia mafioso, sia eversivo, vive di comunicazione, vive di simboli, vive di ordini e strategie: l’isolamento è un buon antidoto.

Che questo regime produca una condizione oggettivamente penosa per chi lo subisca è fuor di dubbio. Che quindi sia sempre importante valutare criticamente la ragionevolezza della sua applicazione sia relativamente alle condizioni presupposte, sia relativamente alle modalità esecutive è altrettanto fuor di dubbio. Lo Stato, democratico e repubblicano, fondato sulla Costituzione del ’48 e cioè su una Costituzione profondamente antifascista, non può permettersi altro che il rigoroso rispetto della dignità di chiunque, anche di chi abbia commesso gravi delitti: infatti il medesimo articolo 41 bis prevede esplicitamente un ampio margine di manovra per il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, di cui recentemente abbiamo avuto una chiara applicazione con la visita fatta in carcere dal Garante a Alfredo Cospito, da oltre 85 giorni in sciopero della fame.

Lo Corte Costituzionale italiana è più volte intervenuta sul testo del 41 bis, riconducendo alcune sue modalità ritenute illegittime dentro il solco dei diritti fondamentali. L’applicazione del 41 bis infine dipende direttamente dal ministro della Giustizia, che deve raccogliere diversi pareri ed è comunque sottoposta alla possibilità di fare reclamo da parte di chi se lo veda applicare.

La nostra democrazia è piena di contraddizioni e limiti, ma per me resta innegabile il suo sforzo di opporsi col diritto alla violenza dispotica di chi voglia imporre la propria volontà a prescindere. Chiunque sia. Questa democrazia non è la migliore in assoluto, ma è quella che abbiamo e che vale il nostro impegno e persino, può sembrare retorico ed anacronistico affermarlo, le nostre vite.

Questa è la lezione immortale che abbiamo ricevuto da Fulvio Croce e saremmo dei meschini se non la ricordassimo, tanto più oggi. L’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Torino è a lui dedicata e sono certo che il suo esempio continui ad ispirare quanti si trovino ancora in situazioni analoghe a quelle che lo videro protagonista.

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