E’ certo che se a Lionel Messi fosse stato infilato un kilt scozzese o un poncho messicano, non ci sarebbe sata tutta questa polemica. Al Thani, emiro del Qatar, ha poggiato sulle spalle del capitano dell’Argentina durante la premizione dei mondiali il bisht, non abaya – l’abaya è la versione femminile -, che nei paesi arabi della penisola araba, in particolare del Golfo, è un simbolo di regalità, di eleganza e onore. “Messi, ti onoriamo come si fa nelle occasioni importanti. Sei uno di noi” è questo il messaggio che si è voluto mandare.

Perché la questione non è l’abito né il gesto, ma chi lo ha compiuto. Nell’atto di poggiare sulle spalle un abito del genere non c’è nulla di male, anzi, segna finalmente un risultato per i paesi arabi: una luce su un mondo dimenticato e insaguinato prima e mentre si sono giocati i mondiali. La Coppa del Mondo era l’occasione per parlare anche di altro, dei vari Stati arabi e dei loro problemi irrisolti ma tutto si è ridotto sempre, come ogni volta, al famoso scontro culturale. “Avete visto la modella croata girare in reggiseno per Doha e lo sguardo di quei bifolchi qatarini?”.

E’ ovvio, o dovrebbe esserlo, che una società dove esistono molti tabù abbia necessità di una apertura, ma questa non avviene in un secondo, né gradualmente. Come è scontato che in Qatar esistano dei problemi, nello sfruttamento dei lavoratori – un po’ come in Italia, se ci guardassimo allo specchio – e nella gestione della politica estera. E questi mondiali potevano essere l’occasione per parlarne, non per prendere tangenti come qualcuno sembra abbia fatto.

Ma tutto finisce in un gesto, in un capo di abbigliamento che poggiato sulle spalle del calciatore più famoso al mondo vuole solo dire: grazie.

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