di Savino Balzano*

Torniamo alla cancellazione delle commissioni bancarie sui pagamenti elettronici. Non tanto nel merito della quesitone in sé, rispetto alla quale molto si è già scritto, quanto piuttosto sugli argomenti messi in campo per evitarla.

Devo ammettere che quando ho appreso dai giornali delle dichiarazioni di Meloni non potevo davvero crederci: l’abolizione delle commissioni sarebbe incostituzionale. Non potevo crederci al punto da nutrire la necessità di sentirlo proprio con le mie orecchie e confermo: per la premier tale misura sarebbe contraria alla Costituzione.

In effetti non cita espressamente la disposizione, ma senza alcun dubbio si riferiva a quanto espresso nell’art. 41 che recita: “L’iniziativa economica privata è libera”. Stando al ragionamento, trattandosi di attività privata delle banche, una intromissione dello Stato sarebbe illegittima. Ora, è evidente che il ragionamento sia palesemente fazioso, terribilmente parziale anche perché dello stesso articolo si dimentica di leggere sempre la seconda parte: “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

A prescindere da questo, ad ogni modo, quello che davvero mi ha colpito è assistere alla citazione della Costituzione per difendere il sistema delle banche. Oltre al danno, la beffa.

Sono più di trent’anni che la nostra Carta fondamentale subisce uno smantellamento ferocissimo: tagli alla sanità, tagli all’istruzione e alla ricerca, tagli ai servizi pubblici essenziali in generale, precarietà del e nel lavoro, morti bianche e chi più ne ha più ne metta. Uno sciacallaggio avidissimo che ha visto crollare uno dopo l’altro i nostri principi cardine: lo stato sociale in questo paese è stato svenduto. Continuamente ci viene ripetuto come la Costituzione abbia fatto il suo tempo, sia da riformare profondamente, non sia al passo con la contemporaneità: ebbene colpisce profondamente come essa sia roba del secolo scorso solo quando difende i poveracci, gli ultimi, chi non ce la fa e come, viceversa, sia attualissima ed intoccabile (peraltro strumentalizzandola) quando c’è da proteggere qualche banchiere o qualche multinazionale.

Non sorprende, ci mancherebbe: già dal suo discorso di insediamento Meloni ha cominciato a ripetere che non va “disturbato chi produce”. Non mi pare si riferisse alla piccola e media imprenditoria di questo malridotto paese o ai lavoratori italiani (ai quali si riservano pochi euro in più al mese di taglio al cuneo), quanto piuttosto alle grandi imprese multinazionali.

Torno al quesito espresso qualche settimana fa da queste stesse pagine: può definirsi davvero politico un governo che non persegue l’interesse generale del paese, ma solo quello di una piccola parte? “Il lavoro non si crea per decreto”, risponderebbe Meloni e nemmeno questo è condivisibile perché la piena occupazione si implementa attraverso politiche economiche espansive e anti regressive: di certo non abolendo i sussidi contro la povertà.

Altro che Draghina! Meloni sta superando il maestro: a Palazzo Chigi siede la Thatcherina.
Interrogarsi sulla politicità di un governo, sulla presenza di un soffocante pilota automatico tecnopolitico, è assolutamente legittimo: ma cosa dire dell’opposizione? Basterebbero questi argomenti per contrastare efficacemente un governo in piena continuità con quelli che lo hanno preceduto e, purtroppo, assistiamo al teatrino di marionette che pensano di rifondare partiti ormai decadenti a suon di supercazzole televisive.

Male, molto male, perché un governo del genere si combatte solo con un’opposizione solida e, soprattutto, politica nel vero senso della parola.

* dottore in Scienze Politiche è autore di “Contro lo Smart Working” (Laterza, 2021) e di “Pretendi il Lavoro! L’alienazione ai tempi degli algoritmi” (GOG, 2019). Sindacalista, si occupa di diritto del lavoro.

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