Sono settimane intense quelle che ci stanno portando verso la fine del 2022 in America Latina e nei Caraibi. La regione è scossa da profondi cambiamenti, colpi di scena e dall’aggravarsi di crisi sistemiche che ciclicamente (purtroppo) si affacciano nei vari contesti nazionali. Una di queste gravi crisi è sicuramente quella migratoria che vede la rotta del corridoio del Darién (la selva tra Panama e Colombia) come un punto di transito di decine di migliaia di persone che cercano di raggiungere via terra (dopo un estenuante viaggio di settimane per il centroamerica) la frontiera tra Messico e Usa.

Sono Venezuela, Cuba e Haiti i paesi dai quali si assiste maggiormente a questo enorme esodo: basti pensare che solo dal Venezuela, secondo dati Unhcr, fino ad oggi sono emigrate 7,13 milioni di persone. Cuba d’altro canto sta vivendo la più grava crisi migratoria della sua storia e si calcola che siano circa 200mila le persone che hanno abbandonato l’isola in questo 2022. Per quanto riguarda invece Haiti, il piccolo stato caraibico è in preda ad una violenza generalizzata e sembra profilarsi un nuovo intervento armato internazionale di “pacificazione”. Dal punto di vista puramente politico, la vittoria di Lula in Brasile nel ballottaggio del 30 ottobre scorso ha ridato speranza e vigore al socialismo progressista, che ora guarda al sindacalista brasiliano e a Petro in Colombia come le grandi “aspettative” per il 2023.

Proprio il primo presidente di sinistra nei 200 anni della storia della repubblica di Colombia, Gustavo Petro, sta portando avanti ambiziose riforme e una grande utopia da lui stesso chiamata “Paz total” (Pace totale). Petro (in carica da agosto scorso) ha iniziato i colloqui di Pace con l’Esercito di Liberazione Nazionale – Eln, ha allentato le tensioni con il Venezuela (si è incontrato con Maduro nel palazzo di Miraflores a Caracas) riaprendo le frontiere e il traffico aereo tra i due paesi e ha fatto parlare di sé nei vari forum internazionali ai quali ha partecipato fino ad oggi. Proprio grazie alla mano tesa del presidente colombiano, alla vittoria di Lula in Brasile e alla guerra in Ucraina (che rende la corsa alla risorse ancora più frenetica), il presidente del Venezuela sembra aver rotto il suo isolamento internazionale. Il discepolo di Hugo Chávez non è più un personaggio “così scomodo”, mentre nel paese si preparano le prossime elezioni presidenziali (Maduro farà presto sapere se saranno nel 2023 o nel 2024) e si riapre il dialogo con la piattaforma dell’opposizione. Opposizione eterogenea, che dovrà celebrare delle primarie e che sembra aver definitivamente abbandonato l’idea di continuare ad appoggiare come presidente legittimo del Venezuela il sempre più emarginato Juan Guaidó.

Guardando al centroamerica ci troviamo di fronte ad un Nicaragua isolato e ad un Daniel Ortega in guerra contro tutto e tutti (quelli che si oppongono o dissentono): l’ultima vittima la chiesa cattolica, accusata di terrorismo e sottoposta ad un vera e propria purga a 360 gradi da parte del vecchio “rivoluzionario sandinista”. Guerra scatenatasi anche nel Salvador, a partire da marzo scorso e che si protrae fino ad oggi a colpi di stati di eccezione che sospendono le libertà costituzionali. Il presidente Bukele vuole cancellare le Maras (bande criminali particolarmente sanguinarie), i loro simboli e anche solo il ricordo delle stesse e per farlo sta usando il pugno duro, costi quel che costi. Le massive violazioni dei diritti umani che scaturiscono da questa strategia non sembrano intaccare il consenso del quale gode quello che viene definito il presidente millennial e il suo stile sta creando nuovi adepti.

La prima è Xiomara Castro, presidente dell’Honduras, che ha già dichiarato di voler seguire i passi del collega salvadoregno per fermare il proliferare delle attività criminali nel suo paese. Una militarizzazione che è stata proposta anche da Guillermo Lasso, in Ecuador, per fermare una guerra tra bande criminali che ha insanguinato il paese andino provocando vari massacri nelle carceri più importanti. Alla mano dura del governo del banchiere ecuadoregno hanno presto risposto le organizzazioni criminali, con attacchi bomba a Guayaquil e con le uccisioni mirate di poliziotti e militari… Una strategia che ricorda tristemente quella di Pablo Escobar in Colombia.

Le ciliegine sulle torta però sono arrivate la scorsa settimana: il 6 e 7 dicembre. Martedì 6 dicembre abbiamo infatti assistito alla condanna a 6 anni di carcere per corruzione dell’attuale vicepresidente dell’Argentina, Cristina Fernandez de Kirchner. Una notizia giunta senza sorprese, visto che anche la stessa Kirchner era certa della sentenza. “Abusi amministrativi” (corruzione in poche parole), condanna che oltre al carcere implica anche l’inabilitazione a vita a ricoprire cariche pubbliche. Il tutto potrebbe però risolversi nel nulla, come avevo anticipato qui, perché Cristina sta per compiere 70 anni (non c’è carcere in Argentina a quell’età ma i domiciliari), ha l’immunità per la carica che ricopre e infine questo è solo il primo grado e lei sicuramente farà appello. Inoltre nel 2023 ci saranno le elezioni e mentre la condanna non arriva al suo punto definitivo, lei ha facoltà di candidarsi, tornando ad avere l’immunità. In questo senso però Cristina Fernández de Kirchner ha annunciato che rinuncia all’opzione di candidarsi il prossimo anno, aprendo dunque scenari inaspettati. Rimane il sapore di un processo e di una sentenza che assomigliano di più ad una vendetta della magistratura (e di una certa stampa) che non una vera ricerca di giustizia.

E se da un lato la democrazia argentina esce indebolita dal caso Kirchner, quella peruviana affonda completamente. Sì, perché mercoledì 7 dicembre ecco un nuovo colpo di scena che certo era nell’aria ma che si è consumato in un modo quasi grottesco. Pedro Castillo ha provato il colpo di mano ma è andata male (per lui). Così male che ora è stato destituito dalla carica di presidente, dopo aver tentato un golpe, sciogliendo il congresso che lo stava per rimuovere, però senza l’appoggio di polizia, esercito e del suo stesso governo che non era stato avvisato previamente. Fallito l’attacco contro lo Stato di diritto e la democrazia, Castillo ha provato la fuga insieme alla sua famiglia (verso l’ambasciata del Messico dove gli era stato garantito asilo) però non ha calcolato il traffico di Lima e in un’azione rocambolesca è stato arrestato e ora sarà processato. Nel frattempo la sua vice, Dina Boluarte, giurava come Presidente della Repubblica del Perù, diventando la prima donna della storia a ricoprire questo incarico nel paese sudamericano. E mancano ancora due settimane alla fine dell’anno…

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