Beh, questa è semplicemente la storia di uno di noi, Italia, 1984-2022, una delle tante. Comincia, una volta tanto, con una poesia.

“I compagni
quando si spezza il pane, la lotta, il dolore e la gioia,
e le mani si toccano,
come una carezza leggera
i compagni
si riconoscono, anche dopo anni, dieci e dieci più dieci
nella memoria di quel volantino stampato clandestino
di quella notte di natale senza doni, che la tensione
e la fatica soltanto ti fanno sorridere
i compagni, a mezzanotte, quando le telefonate si ripetono
e senti la tua vita o la sua spezzata dall’odio fuori dalla redazione
i compagni, con quei maglioni,
e quel cappotto regalato che ti protegge dal freddo
e tu lo sai che comunque sia andata la vita, c’è un filo che vi lega”.

(Fabio Michele D’Urso, “Fabiolino”)

Questa non sarebbe neanche una poesia, ma un pensiero rubato, a insaputa dell’autore, da un social. L’autore, anzi l’Autore (poiché ormai fa parte, e io me ne intendo, della letteratura) ha un nome lungo e autorevole, perfetto per in libro o un’epigrafe; per me è semplicemente Fabiolino. Nei Siciliani giovani dell’85 infatti era il più piccolo, forse anche il più allegro; era fra i caporioni. Un caporione incontrollabile, fra l’altro: la volta che il Ministro venne a Catania lui lo vaniò pubblicamente e dovettero chiamare le guardie per farlo star zitto. Letterariamente è un allievo mio: dov’è arrivato ora, lo vedete qui sopra.

“Noi non siamo grandi artisti, noi siamo artigiani”: questa frase superba, che è la grande scuola dei siciliani, se l’è meritata subito con le sue mitiche quattordici riscritture, a quindici anni, del suo primo articolo stampato.

Mi ha dato una grande paura e un grande insegnamento e un orgoglio smisurato. La paura è quando, dichiaratosi gay (suo il primo giornale gay siciliano), temetti, nella mia barbarie, che fosse diventato diverso. L’insegnamento fu che né lui né i suoi amici (che portò, ovviamente, ai Siciliani) eran diversi in nulla, tutti ragazzi ottimi e civili: cosa allora scorbutica, persino – a mia vergogna – per un rivoluzionario come me. L’orgoglio fu di vederlo crescere, come cittadino, come intellettuale, e come uomo. Sapendo che di questa crescita ero anch’io responsabile, come lui – ma lui non lo sospettò mai – lo era per me. Insegnare/imparando, da buoni amici e compagni, da buoni esseri umani.

Così passarono gli anni, i suoi e i miei; non facili né gli uni né gli altri; ma sempre degni – fra dolori e battaglie – di essere vissuti. Utili gli uni agli altri, al mondo circostante, alle belle imprese. Gli anni, che ancora durano, dei Siciliani. Fabio, per le virtù e il coraggio, ha avuto il massimo riconoscimento possibile in questo stato: l’abbandono. Vivere in povertà, ma aiutando gli altri, dimenticato, ma memore, ignorato dai giovani, ma sempre profondamente giovane egli stesso: così, in questa società, ha vissuto “Fabiolino”.

Ne scrivo qui e ora perché è giusto scriverne, come testimonianza a quelli che verranno. E come modello, e un po’ rimprovero, per chi va piano: la parola “compagni”, chi pretende di usarla, può impararla anche qui. E infine come forza per me, per la mia vita.

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