Nei giorni scorsi ho ricevuto la disperata telefonata del papà di una ragazzina con sindrome di Down che mi raccontava di come la figlia fosse stata esclusa dalla lettura di un libro in un’attività extra scolastica. A far arrabbiare questo padre è stato il pianto della figlia. Lacrime che chissà quanti altri mamme o papà devono asciugare digerendo bocconi amari.

Ma ciò che voglio raccontare non è tanto la vicenda dell’esclusione, bensì il teatrino tipicamente in stile italiano andata in scena grazie alla tenacia e al coraggio di questa famiglia. Giorgio (nome di fantasia), infatti, ha preso carta e penna e ha scritto al ministro dell’Istruzione e agli uffici scolastici regionali e provinciali protocollando il tutto: “Le scrivo anche a nome di mia moglie in difesa dei sacrosanti diritti di mia figlia dodicenne nata con la sindrome di Down. Le scrivo per mia figlia, ma voglio anche rappresentare chi lamenta le stesse gravissime problematiche, ma non ha il coraggio o la voglia di agire perché ormai arreso. Le scrivo perché siamo stufi di vedere nostra figlia considerata un ebete, un vegetale o un essere insignificante solo da accarezzare e compiangere. Siamo stufi di vederla esclusa dal mondo scolastico i cui appartenenti tanto amano gonfiarsi la bocca utilizzando il termine inclusione, coscienti che poi mai lo adotteranno. Siamo stufi che i nostri soliti interlocutori siano esclusivamente gli insegnanti di sostegno ai quali è stata scaricata nostra figlia e non conoscere mai un pensiero su di lei da parte di quelli curriculari”.

Immediatamente è partita una mail da Roma alla direzione regionale in questione che ha subito chiesto verifiche al dirigente scolastico, che ha immediatamente chiamato il padre dicendo le solite parole di rito per cercare di smorzare ogni incendio perché nella scuola italiana, spesso, l’inclusione altro non è che sulla carta. Certo, lì non manca. Da qualche anno l’inclusione è garantita dal consueto acronimo: il Pei (piano educativo individualizzato). Con questo documento, ogni consiglio di classe è chiamato a costruire una didattica inclusiva. E’ tutto definito in quelle carte: sono indicati gli obiettivi educativi che si vogliono raggiungere e gli strumenti e le attività che si utilizzeranno per conseguirli e i criteri di valutazione. Vi confluiscono, ad esempio, la programmazione per obiettivi minimi o la programmazione differenziata. Lo firmano i docenti della classe in cui si trova lo studente, l’insegnante di sostegno, le figure socio-sanitarie che seguono il ragazzo e la famiglia.

A “celebrare” la firma di questo documento c’è un altro bell’acronimo: il Glo (gruppi di lavoro operativo). Tutto è in regola. Tutto è regola, ma dietro le carte spesso si nasconde una realtà diversa che chi fa scuola conosce: un’inclusione lasciata nelle mani del destino che sceglie se inviare un docente non specializzato di buon cuore o no, un’inclusione fatta da docenti che spesso (io compreso) non hanno ricevuto una formazione seria, competente su come stare e lavorare con un ragazzo Down o con un bambino autistico, un’inclusione che è fatta di mancanza di spazi e strumenti adeguati per questi ragazzi. Quel papà in queste ore ha chiesto proprio l’annullamento del Pei che aveva firmato perché non ha senso che l’inclusione sia solo sulla carta.

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