Nel 2021, l’anno in cui il pil ha messo a segno un maxi rimbalzo del 6,7% dopo la recessione da Covid, il reddito medio lordo dei lavoratori dipendenti del settore privato si è fermato a 21.868 euro. Gli operai, che sono il 55% del totale, si fermano a 16.180 euro. I giovani tra i 25 e i 29 anni, complici contratti spesso di pochi mesi, superano di poco i 15mila, i 30-34enni non arrivano a 19mila. Nonostante questi numeri – aggiornati dall’Inps un paio di settimane fa – il governo Meloni si prepara a varare una legge di Bilancio dedicata giocoforza per due terzi alle misure contro il caro bollette e per il resto a misure obbligate come la rivalutazione delle pensioni e contentini all’insegna della “poca spesa, tanta resa” (elettorale). Il risultato è che, mentre le partite Iva incasseranno l’ampliamento della tassa piatta al 15%, anche stavolta i lavoratori dipendenti dovranno accontentarsi delle briciole.

Il punto di caduta sul taglio del cuneo fiscale per il 2023 sarà il rinnovo della mini sforbiciata del 2% per chi ha imponibile sotto i 35mila euro messa in campo da Draghi. Mentre il taglio arriverà a 3 punti per chi è sotto i 20mila euro, a conferma dell’annuncio del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che sabato (mentre altri esponenti dell’esecutivo garantivano a Confindustria che un terzo dello sgravio sarebbe andato alle imprese, ipotesi poi tramontata) aveva fatto filtrare la volontà di aiutare di più i redditi molto bassi. In entrambi i casi il beneficio andrà tutto a favore dei lavoratori. Un tentativo di disinnescare le tensioni sociali che potrebbero scatenarsi ora che i prezzi sono arrivati a crescere a doppia cifra da un mese all’altro mentre l’ipotesi di un salario minimo per legge è uscita dai radar. Ma l’intervento non sposterà di molto l’esito dell’operazione: 3 punti di decontribuzione si traducono in una quindicina di euro al mese per chi ne guadagna 1000 netti, poco più di una decina per chi ne porta a casa 750.

Nel Paese in cui i salari sono al palo da 30 anni, quelle cifre non sono casi limite. Tutt’altro, se si guarda alle ultime statistiche Inps sulle retribuzioni dei dipendenti privati. Le tabelle che riassumono i dati su operai, impiegati, quadri, dirigenti e apprendisti (sono esclusi gli operai agricoli e i lavoratori domestici) mostrano un recupero medio del 3,5% rispetto al 2020 segnato dai lockdown. Ma le buone notizie finiscono qui. I lavoratori a tempo determinato, con 9.634 euro lordi medi, sono sotto la soglia di povertà assoluta, come gli stagionali che hanno percepito in media 6.425 euro lordi. I “fortunati” con un contratto a tempo indeterminato raggiungono i 26.285 euro medi. Al Sud le giornate medie retribuite sono state solo 211, contro una media nazionale di 235, con il risultato che lì la retribuzione media non arriva a 16mila euro. L’analisi per settori vede in coda alla classifica – non a sorpresa – la ristorazione e i servizi di alloggio: gli 1,6 milioni di lavoratori del comparto, che a intervalli regolari lamenta la difficoltà di trovare personale e la “concorrenza” del reddito di cittadinanza, hanno retribuzioni medie sotto gli 8mila euro, complici i contratti di breve durata.

Restano impressionanti, e non accennano a ridursi, i divari generazionali e di genere: i lavoratori maschi guadagnano in media 25.200 euro contro i 17.300 delle donne. Il gap è ancora più ampio nelle fasce di età più elevate, quelle in cui ricadono i dipendenti entrati nel mercato del lavoro negli anni Ottanta con contratti stabili e carriere non discontinue: gli uomini tra i 55 e i 59 anni hanno retribuzioni di 32.648 euro medi, le più alte in assoluto, contro i 21.500 euro delle coetanee. Per i più giovani (fino a 35 anni) il precariato diffuso si traduce invece in redditi medi sotto i 20mila euro, con un picco negativo di soli 9.918 euro nella fascia 20-24 anni.

Facile capire quanto sia risibile, partendo da queste cifre, l’impatto di un taglio del cuneo contributivo del 2 o 3% per 13 mensilità, con la prospettiva di arrivare al 5% in corso di legislatura come annunciato dalla premier Giorgia Meloni. La Fiom Cgil ha calcolato che la decontribuzione del 2% varata da Draghi ha lasciato nelle tasche di un lavoratore con un netto di 1049 euro al mese solo 74,6 euro in più da spalmare su sei mensilità più la tredicesima: fa 10,6 euro al mese. Con l’aumento di un punto si arriva a 15. Mentre in corrispondenza dei 35mila euro di reddito il risparmio arriva a 18,2 euro al mese. Questo mentre per i lavoratori autonomi si conferma la possibilità di pagare migliaia di euro di tasse in meno grazie alla flat tax.

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