Come si fa a essere juventino, nonostante tutto? No, non mi riferisco all’orribile inizio di stagione di una squadra che in estate, secondo il suo allenatore, doveva puntare allo Scudetto. E ovviamente qui non fa testo neanche l’incredibile gestione atletica di una rosa che alla vigilia della fondamentale partita con l’Inter conta su 12 o 13 calciatori infortunati, tra i quali ci sono quasi tutti gli acquisti estivi (stendiamo un velo soprattutto sulla questione Pogba). Esula da questa riflessione anche il surreale testacoda societario che nel giro di un due o tre anni ha fatto precipitare la migliore realtà sportiva e finanziaria italiana in un limbo terrificante: allenatori cacciati ogni anno o quasi, stipendi altissimi e spesso ingiustificati, bilanci in rosso, una rosa largamente incompleta e con una resa molto al di sotto delle aspettative.

Parliamoci chiaro: chi si dispera perché Raspadori è finito a Napoli, sappia che in questo momento qualsiasi calciatore di talento diventa un mezzo giocatore se decide di vestirsi di bianconero. Viceversa chiunque lascia la Juventus sembra rinascere dopo poche partite. Sì, stavo pensando a Kulusevski.

Queste, però, sono tutte discussioni da bar. Rispettabilissime discussioni da bar. Qui, però, la questione che voglio provare ad affrontare è più antica e a tratti autobiografica: come si fa a tifare una squadra che ciclicamente finisce – a torto o ragione – al centro di veleni, sospetti, indagini giudiziarie? Come si resiste a Calciopoli, alla serie B, ai veleni sui legami tra ultras e criminalità organizzata, agli scandali sui bilanci, agli scandaletti per i presunti favori arbitrali (ultimamente molto rari, a dire il vero)?

Per rispondere a questa domanda me ne sono posta un’altra: perché si diventa tifosi della Juve? Escludendo le singole storie personali (il tifo ereditario, per esempio), esistono due tipi di risposte. Quella degli juventini, cioè circa metà degli appassionati di calcio del Paese: perché la Juve è la squadra migliore d’Italia. Non solo la più forte, proprio la migliore. A questa versione va contrapposta la risposta dell’altra metà dei tifosi italiani, quelli che hanno scelto squadre minori ma sono tutti o quasi accomunati dall’essere anti juventini: a chi tifa la Juve piace vincere facile.

Nata per convenzione il primo giorno di novembre del 1897, secondo la leggenda su una panchina di corso Re Umberto a Torino, la Juventus Football Club rischiava di festeggiare i suoi 125 anni con il presidente agli arresti domiciliari. Cosa che non è avvenuta soltanto perché il gip ha rigettato la richieste della procura di Torino, che da un anno indaga su alcune presunti reati legati alla gestione del bilancio. Un’inchiesta che potrebbe essere una macchia per quello che è un doppio anniversario: nel 2023, infatti, la famiglia Agnelli festeggia i 100 anni alla guida della Juventus. Questa gestione secolare – probabilmente un caso unico a livello mondiale – ha ovviamente influito profondamente nella storia juventina. Nel bene o nel male, è la squadra di quella che è una delle famiglie più potenti – se non la più potente – dell’Italia repubblicana.

È con l’arrivo degli Agnelli che si comincia a parlare di “stile Juve“, una sorta di spirito guida che dovrebbe essere applicato nella gestione della società. “Di stile Juventus parlano gli altri, non noi”, metteva le mani avanti Gianni Agnelli. Sarà. Di sicuro è da quando arrivano gli Agnelli che la Juventus comincia a trasformarsi in qualcosa di più grande di una semplice squadra di calcio: è la prima a vincere cinque scudetti consecutivi, quella che fornisce il numero più alto di calciatori alla Nazionale all’epoca dei due mondiali vinti nel ‘34 e ‘38. Poi, tra il Dopoguerra e i primi anni 60, diventa la squadra più tifata d’Italia e allo stesso tempo la più odiata.

Nel periodo del boom economico migliaia di operai del Mezzogiorno si trasferiscono in Nord Italia per lavorare in fabbrica, spesso alla Fiat o nelle altre aziende dell’indotto. Lontani da casa, si appassionano a una squadra che non ha un nome di una città e dunque non può avere alcuna connotazione campanilistica. In più è spesso una squadra vincente e questo, per chi si trovava ad affrontare dure condizioni di lavoro in realtà spesso ostili, alimenta una sorta di senso di rivincita. Ma pure una gigantesca ambiguità di fondo: gli operai che tifano la squadra del padrone. Non che le altre squadre di calcio siano messe meglio: i Moratti e soprattutto Berlusconi non sono esattamente esempi di collettivi socialisti.

Ma d’altra parte sono stati juventini personaggi come lo storico leader della Cgil Luciano Lama, il segretario del Pci Enrico Berlinguer mentre è diventata leggendaria la battuta di Palmiro Togliatti a Pietro Secchia, reo di non seguire i bianconeri alla domenica: “E tu – lo rimproverò il Migliore – pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?”. Né Secchia e neanche Togliatti avrebbero mai fatto la rivoluzione.

Altri tempi, verrebbe da dire. All’epoca la frase “la Juve ruba” era solo un’accusa lanciata dai tifosi avversari: schermaglie velenose ma pur sempre schermaglie legate al tifo. La “Juve ruba”, però, sarebbe diventata una sentenza giudiziaria negli anni Calciopoli: come si fa a tifare una squadra che ruba, pure secondo i giudici? Come si fa a tifare Juventus quando, pure se torni a vincere dopo l’inferno della Serie B, devi sostenere sempre la stessa accusa, quella di rubare, lanciata magari da tifosi di squadre che si sono avvalse della prescrizione? Come si fa a tifare Juventus se hai la mafia in curva? E come fai a continuare Juventus se quando i gruppi ultras vengono esclusi dalla curva, il tuo stadio ha praticamente smesso di tifare? E ancora: come fai a tifare Juventus ora che viene messa in dubbio pure la corretta gestione della società, cioè quello che è spesso stato un vanto della famiglia e dunque della tifoseria?

Le ultime contestazioni della procura di Torino, parlano di false comunicazioni al mercato, ostacolo alle autorità di vigilanza, aggiotaggio informativo e dichiarazione fraudolenta. Accuse contestate non solo ai manager, ma pure a un esponente della famiglia come Andrea Agnelli, e che – se dimostrate – darebbero un colpo definitivo alll’ormai mitologico “stile Juve“. Secondo Giorgio Bocca la verità è che lo “stile Juventus” non è “mai esistito nella pratica, sempre nella leggenda“. Forse aveva ragione. O forse lo stile Juve sono quelli che continuano a tifare, nonostante tutto. Anche se, tra un’inchiesta, un veleno e un’accusa, diventa sempre più complicato.

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