Cultura

Boris 4, in “Dài, dài, dài! La vita a ca**o di cane” il produttore Lorenzo Mieli: “Francesco Pannofino? Umanità e purezza che ha messo in René Ferretti, l’unico buono della serie”

Il volume (Compagnia Editoriale Aliberti) è una biografia dell'attore e doppiatore romano, con all'interno il decalogo per vivere una vita secondo i dettami di René. Ecco una (seconda) anticipazione per i lettori di FQMagazine: un'intervista al produttore della serie

di F. Q.

È uscito in libreria “Dài, dài, dài! La vita a ca**o di cane” (Compagnia Editoriale Aliberti) di Francesco Pannofino con Roberto Corradi. Il volume – una biografia dell’attore e doppiatore romano, con all’interno il decalogo per vivere una vita secondo i dettami di René Ferretti, protagonista di “Boris” – si apre con un’intervista a Lorenzo Mieli, il produttore della serie Boris, la cui quarta stagione è uscita il 26 ottobre. Un estratto, per i lettori di FQMagazine.

Francesco Aliberti: Cominciamo con un tuo ritratto di Francesco Pannofino.
Lorenzo Mieli: Cominciamo con una domanda difficilissima. Prima di assistere al provino di Boris sapevo chi fosse, ma non lo conoscevo personalmente. Quindi per me è difficile dividere Francesco Pannofino da René Ferretti. Tra l’altro Francesco in quel provino fu strepitoso. Ricordo che quando Mattia Torre e Luca Vendruscolo me lo fecero vedere eravamo in uno scantinato.
Aliberti: Che anno era?
Mieli: Credo il 2006. Francesco l’ho conosciuto così. Io sono molto riservato, non sono un caciarone, e anche Francesco è un uomo molto discreto, mi piace tantissimo. È una persona di una umanità, di una bontà, una purezza, una gentilezza: l’opposto del mondo che raccontiamo in Boris, del mondo dello spettacolo, dove invece sono tutti cinici. In realtà Francesco ha portato questi elementi di purezza dentro al personaggio che ha fatto: René è l’unico buono, puro davvero, che ogni tanto ci crede, prova a crederci e poi si disillude di questa possibilità ma non la molla mai. Credo davvero che da questo punto di vista ci sia una somiglianza antropologica e di cuore, sentimentale, fra René e Francesco. Almeno per come lo vedo io.
Aliberti: Nel contatto WhatsApp di Francesco c’è la foto in cui lui è con Stanis, uno dei protagonisti della serie, con la didascalia «Non sento l’Africa», (una battuta della scena). Quanto c’è di René Ferretti in Francesco Pannofino, nella vita reale?
Mieli: Non per togliere nulla al Francesco persona, anzi. Gli voglio bene esattamente come non si può non voler bene a René, perché tutti vogliono bene a René. E Francesco è geniale, io mi ricordo l’effetto che fece a tutti noi. È stato inaspettatamente il primo a conferire a quei personaggi un’aura di eternità. Poi, certo, tutti sono diventati così, ma lui è stato il primo a trasferirli in quella dimensione che li rende eterni. Anche adesso che sono tutti invecchiati, e potrebbe risultare una cosa tristissima. Invece no! È come quando guardi i cartoni animati, vedi I Simpson: possono andare all’infinito o puoi rivederli all’infinito. In questo, e torno a Francesco, adesso che l’ho rincontrato ho ritrovato la stessa persona che non vedevo da tanti anni. E, ripeto, con questa discrezione, questo imbarazzo che ha lui e che ho anche io. Mi riconosco in questa cosa, in questo pudore quasi. C’è una impossibilità di non volergli bene e di non sentire la sua parte sentimentale. E questo aspetto di Francesco è il più bello secondo me.
Roberto Corradi: Voglio chiederti una cosa, anche se penso che tu non possa rispondere. Qual è l’innesco della quarta serie? C’è un pretesto? Nel film, ad esempio, c’è il pretesto di dover girare un film. In questo caso?
Mieli: Qui c’è la piattaforma, l’arrivo delle piattaforme streaming e produzione, attori e maestranze sono nell’impossibile impresa di confrontarsi con l’iper-contemporaneità delle piattaforme, con i loro pregi e difetti.
Aliberti: E quindi non c’è più la Rete.
Mieli: Non c’è più la Rete.

Corradi: Chi fa il nostro mestiere, chi lavora nella fiction o per il cinema, considera Boris anche un documentario. Al riguardo vorrei chiederti come è nata l’idea di Boris, qual è stata la sua genesi.
Mieli: Si tratta di una storia lunga, ma te la faccio breve. Boris è nato così: avevo già fondato la mia casa di produzione ma un po’ anche per sbarcare il lunario, e anche un po’ per interesse, lavoravo nel mondo marketing-ufficio stampa. In quel contesto vedevo come si faceva, all’epoca, la fiction italiana e, con Luca Manzi, pensammo di trasformare quella realtà in una serie di “pillole”, un dietro le quinte. Meglio ancora: degli sketch sul dietro le quinte dell’industria della fiction italiana che, come tutti sappiamo, è stata concepita fino a una decina di anni fa (forse Boris è stata proprio la prima serie italiana diversa, la nuova generazione) per il grandissimo pubblico di massa, molto soap, molto nazionalpopolare, molto semplice, semplificativa. Eravamo giovani al tempo, io produttore, gli altri, intendo gli sceneggiatori e i registi, e tutti covavamo l’ambizione di fare qualcosa di diverso. Arrivare a una scrittura che mi convincesse davvero è stato un processo lungo. Quindi da quella idea abbiamo fatto tanti giri e diverse scritture. Poi vidi il film Piovono mucche di Ciarrapico-Vendruscolo e Torre. Un mio amico mi disse: «Vieni a vedere un film al Sacher, rassegna Bimbi belli, la storia di un gruppo di obiettori di coscienza che lavorano in una comunità di recupero per disabili». Pensavo di vedere un film drammatico e invece scoprii un film sgangheratissimo, con un’ironia geniale: a questi obiettori di coscienza non andava di fare nulla, il tutto ambientato in una comunità di recupero in cui tutti i ragazzi erano molto più stronzi degli obiettori di coscienza, e li vessavano. Contattai chi aveva pensato il film e chiesi loro di provare a riscrivere questa idea su cui stavamo lavorando. Fu in questo modo che conobbi Giacomo, Luca e Mattia, che avrebbero poi scritto e realizzato Boris. Nacque intanto la prima puntata, che era appunto Sampras, l’episodio pilota, e lo andammo a proporre a Fox. A quel tempo era il canale di punta del bouquet Sky e mandava in onda le serie che a noi piacevano di più, da Lost fino a The Sopranos, quelle che mi ha fatto venire voglia di fare questo mestiere. Proponemmo di fare Boris. Loro ci dissero che non avevano i soldi per produrre cose in Italia, «Non è il nostro mandato» dissero, ma li convinsi a fare delle pillole di due o tre minuti fra una puntata di una serie bella e l’altra. Ma questo tipo di produzione a noi non bastava. Scrivemmo allora una puntata pilota di trenta pagine e la producemmo con i soldi di una pillola da tre minuti. Era chiaramente una follia, non era possibile. Ma la speranza era che una volta girato l’episodio pilota loro sarebbero impazziti e li avremmo convinti a farla. E così è stato, perché quando portammo il montato, che durava ventotto minuti al massimo, l’allora direttore di Fox Fabrizio Salini, poi direttore generale della Rai, e tutto il suo gruppo dissero: «Non abbiamo i soldi, non abbiamo il mandato di farlo, ma non possiamo non fare questa serie». Boris è nato così.
Aliberti: Ti saresti aspettato il successo che ha avuto?
Mieli: È interessante parlare del successo di Boris, perché su Fox Boris non ebbe un grande successo. Ma Boris diventò un fenomeno di pirateria, e questo è uno dei motivi per cui siamo ritornati a farlo. Il target di Boris – i ragazzi dai diciotto ai venticinque, studenti, il target era young adult – non avevano l’abbonamento a Sky. Boris divenne quindi un puro fenomeno di pirateria, e in questo contesto ebbe un successo molto più grande rispetto ai numeri ufficiali. Di questo Fox era consapevole. Infatti, devo dire che apprezzo tuttora la loro scelta di continuare ad andare avanti per tre stagioni nonostante i loro numeri non fossero buoni, ma era evidente a tutti che Boris era ovunque, ne parlavano tutti, anche se i dati non potevano reggere. Ci fu un momento in cui gli spettatori erano trentamila a puntata, ma avevamo cominciato con centomila. Quello di Boris fu quindi un successo particolare. E uno dei motivi che ci ha spinto a rifarlo è stata questa circostanza: quando Netflix ha caricato le puntate di Boris, durante la pandemia, la serie è riesplosa con una nuova generazione di sedicenni – trentenni che non lo conoscevano per averne visto le puntate, ma grazie ai meme. Boris è uno fra i più grandi generatori di meme in Italia. Quindi un sacco di ragazzini avevano visto meme di una cosa, una fiction, che non conoscevano propriamente e l’hanno scoperto dopo, guardandolo. Il fenomeno Boris è rinato e noi abbiamo capito che le piattaforme, oltre a essere un meraviglioso oggetto di satira, erano molto più in linea col target di Boris di quanto lo fosse la televisione satellitare dieci anni fa.
Corradi: Mi sono sempre fatto questa domanda: quanto improvvisano loro sul set? C’è qualcosa di improvvisato oppure è una liturgia?
Mieli: Tanto, improvvisano tanto sotto la guida rigidissima prima dei tre registi e adesso dei due, dopo la scomparsa di Mattia Torre. Alcune fra le situazioni più belle nascono non solo dall’improvvisazione, ma da un gioco sui personaggi, dentro dinamiche ormai ovviamente rodate. Capiscono come “quel” personaggio dentro a “quella” scena, dentro “quella” battuta potrebbe dire qualcosa in più e deviare. Quindi c’è l’improvvisazione, certo, ma come in un canovaccio.
Corradi: Ho letto da qualche parte che Mattia Torre ha lasciato degli appunti. Le sue idee entrano anche in questa nuova serie? Che ricordo hai di lui? Se ti va di parlarne.
Mieli: È molto difficile parlare di Mattia, non ho perso un solo dettaglio della memoria che ho di lui. Non è retorica ed è stranissimo, perché è stata la prima occasione nella mia vita in cui mi è successo di perdere un amico in questo modo, quasi senza potermene rendere conto, e non sapevo cosa potessi provare. Oltre a subire una perdita enorme, certamente. Però la sua presenza è incredibile, mi ricordo tutto di lui. Se tu mi chiedi “Cosa ti ricordi di lui?” io ti rispondo come parlandoti di una persona che ho sentito il giorno prima. Una fra le cose più incredibili di Mattia è il misto di estrema vitalità e disincanto ironico sulla realtà, un mix straordinariamente particolare. Il disincanto di solito si accompagna a un disincanto esistenziale, invece Mattia è un vitalista disincantato. La cosa è un ossimoro, ma è un ossimoro meraviglioso. Questo spirito è indimenticabile e tutte le persone che gli sono state amiche lo hanno vissuto e assorbito, se ne sono imbevute, come la pozione di Obelix. Non se ne esce più, da Mattia non se ne esce.
Corradi: Ci avrebbe fatto bene averlo ancora qui. È un po’ come immaginare il mondo senza Vittorio De Sica, che c’è stato troppo poco e ci avrebbe fatto bene se fosse rimasto di più.
Mieli: Già.

Corradi: Prima parlavi dei Sopranos e, se ti va di continuare, quali sono gli artisti, gli attori, i film, i classici anche italiani, che hanno segnato il tuo percorso?
Mieli: È molto difficile rispondere a questo tipo di domanda, lo sai bene. Ti dico quello che mi viene in mente adesso ma poi, come sai, queste idee cambiano spesso. Io sono nato in una generazione in cui l’ottanta per cento di quello che ho visto l’ho visto in televisione. Quindi per me quella scatola che adesso non è più una scatola ma una parete, un plasma lcd, è un oggetto di vitalità incredibile.
Aliberti: La scatola magica?
Mieli: Una scatola magica, esatto. E in quella scatola da sempre si mischia tutto. Da Scorsese a Il pranzo è servito. Si mischiano I Jefferson a David Lynch. Io guardavo il pomeriggio I Jefferson e la sera Twin Peaks. Questa è la mia vera genesi: io i film di Renzo Montagnani li guardavo prima di vedere Antonioni. E i cartoni animati, poi. Dal punto di vista della formazione culturale sono figlio di una generazione postmoderna. Ero un aspirante regista, poi sufficientemente presto mi sono reso conto della mia incapacità, della mia assoluta scarsezza come regista e poi, grazie a un produttore, ho capito che c’era una parte del lavoro che volevo fare: il produttore. Fino a un certo punto pensavo che il produttore fosse quello che metteva i soldi e organizzava i camion, invece poi ho capito che era un lavoro più complesso, più interessante anche. Nella mia formazione ci sono alcune cose che per me sono state rivelatorie, che sono il cinema della new Hollywood di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta, quindi Scorsese, per fare un nome.

Aliberti: E per quanto riguarda l’Italia?
Mieli: Per quanto riguarda l’Italia se ti devo dire cos’è che mi ha sconvolto ti dico Sergio Leone. Per la prima volta vedevo delle cose per le quali mi chiedevo: “Ma come ha fatto questo da Roma a creare un mondo così incredibile, così coerente, così rivoluzionario rispetto a dei codici di uno così lontano dal nostro?” Ero poi anche pazzo per la commedia all’italiana, cioè Dino Risi, quel tipo di cinema. Se la mattina potevo guardarmi unfilm della grande commedia all’italiana ero l’uomo più felice del mondo. Non sto a citare i registi, però ti dico le cose che per me sono state profondamente rivelatorie e catartiche. C’è poi una parte del cinema più libero, di quello che è stato per alcuni anni il cinema più libero, come il cinema anglosassone. E poi posso citarti David Lynch. Nessuno della mia generazione può non dirsi formato e forgiato da Tarantino. E poi, ancora, da quando sono piccolo fino ad ora, per me la serialità è stata una meravigliosa droga. Me ne sono nutrito trovando la giusta quantità senza mai andare in overdose, ma è una cosa che mi accompagna da sempre. Quando, infine, vidi i Sopranos ebbi un’altra epifania. Non riconoscevo quello come un qualcosa di simile o vicino. Twin Peaks lo avevo visto prima, era antecedente, ed era una cosa completamente rivoluzionaria, un unicum, era David Lynch. Per me i Sopranos è stata davvero una rivelazione, perché ho capito che la serialità può essere anche altro. E da lì è nato anche il desiderio, – io me lo ricordo perfettamente, ero molto grande quando ho visto i Sopranos – ho pensato: “Io voglio riuscire a fare una cosa così”. Per me i Sopranos avevano al proprio interno tutte le cose che mi piacevano.
Aliberti: Per restare al mestiere del produttore e per tornare a Boris, uno dei miei personaggi preferiti è Sergio, il produttore degli Occhi del cuore…
Mieli: Per essere corretti bisogna innanzitutto dire che Sergio è l’organizzatore generale, il produttore esecutivo, quello che sta sul set e che gestisce il budget. Ci sono dei produttori che hanno questo tipo di formazione, del resto molto utile. Sergio è anche il mio personaggio preferito di Boris. C’è poco di me in Sergio, ma proprio perché io mi occupo di queste cose ne ho conosciuti tantissimi. E per loro, esattamente come per Sergio, ho una grandissima forma di fascinazione e addirittura di rispetto. Il cinema è anche quella cosa lì: organizzare e affittare camion, reperire camper. C’è una grande componente organizzativa.
Aliberti: È un mestiere di grandi innamoramenti. Io da editore ci trovo alcune affinità.
Mieli: Alberto Di Stasio è un altro uomo di una bontà assoluta, perfetto per il ruolo di Sergio. Ma un po’ tutti i personaggi di Boris sono dei buoni che dicono delle cose atroci. Ma sono tutti buoni, non c’è un personaggio che sia cattivo: sono ignoranti, scemi o culturalmente non vedono fuori da quello che è il loro naso, o ambiente. Eppure non c’è mai la cattiveria in Boris, mai. E questo è il motivo per cui sembrano dei cartoni animati: dicono e fanno delle cose atroci ma lo fanno con un tale candore, una tale bontà e cecità rispetto a quello che stanno dicendo e facendo che non puoi non volergli bene. Ma voglio tornare al mestiere del produttore. Per questo mestiere ci vuole un po’ di sana realtà, il principio di realtà. Perché altrimenti la bontà delle idee, delle persone e anche del fatto che ci sia qualcuno che si assume dei rischi grossi poi può finire a danneggiare tutto e tutti. Quindi il principio di realtà e di ironia, una sana ironia che ti riporti a terra, per un produttore è molto utile.

Aliberti: È salvifica, perché il rischio è la rovina.
Mieli: Io credo che tutti noi che ci occupiamo di produzione, o di editoria volendo, ci siamo sentiti un po’ Sergio almeno una volta. Perché a volte ci va bene tutto purché l’episodio, la scena, il progetto si chiudano. C’è poi questo pensiero: “Io su questa cosa mi ci gioco tutto”. Che è folle perché una produzione non salverà il mondo, non cambierà la storia. Si sta lavorando per un film, per una serie. Io li ho avuti i miei momenti così, li ricordo molto bene.
Corradi: Solo una domanda, perché tu meglio di chiunque puoi dire questa cosa: qual è lo stato dell’arte attuale? I tre [Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, Ndr] non sono molto rappresentativi di com’è il mondo attuale perché sono dei talenti strepitosi. Tu vedi delle generazioni di autori che sono da coltivare, da far crescere, portare avanti? Ti pongo questa domanda per ritornare un po’ all’Italia degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, quando era un’esplosione di grandiosità.
Mieli: Questo è il vero tema, e ci rifletto da tempo. Di sicuro in questi ultimi due-tre anni c’è la possibilità di fare molte più cose rispetto a quando avevo cominciato a lavorare io. Oggi ci sono settanta piattaforme e player televisivi che fanno cinema e serie. Quando ho iniziato c’erano tre distributori cinematografici e sostanzialmente un solo player televisivo. Oggi c’è una possibilità maggiore, ma allo stesso tempo ci sono meno nicchie di libertà e anarchia. E proprio in queste nicchie germogliano e fioriscono talenti da domare. Non so quindi se nel sistema di oggi, nelle batterie di scrittura attive tutti i giorni in Italia per fare duecentocinquanta film e trecento serie all’anno, stanno nascendo dei talenti. La risposta quindi è sicuramente sì, ci saranno dei talenti, ma non so se questo è il contesto migliore affinché possano spiccare. È indubbio che l’Italia abbia sofferto negli ultimi anni di una carenza di nuove voci, una carenza sconvolgente rispetto a quanto ha espresso questo Paese. Basti pensare che il soggetto di C’era una volta il west l’hanno scritto Bertolucci, Dario Argento e Sergio Leone. Pensi a questo soggetto e ti chiedi: “Ma che mondo era? Quando tre persone scrivono un western che è un capolavoro”. Di certo siamo lontani da quel mondo.

Corradi: Sì, perché quando penso a Boris, che è assolutamente anarchico e non è ascrivibile a qualcosa di simile, penso alla modernità assoluta di film degli anni Cinquanta con protagonista Tina Pica, che sembra una cosa da niente… e invece. Il film Nonna Sabella, per esempio, da un romanzo di Pasquale Festa Campanile, ha come protagonista una donna anziana: un fatto rivoluzionario per l’epoca, almeno in Italia. Credo fosse il 1957. Un segno di libertà anche, come dicevi tu.
Mieli: A me non sembra che questo sia un momento di grande libertà espressiva. Non ne faccio una colpa a nessuno, non dico che è colpa del sistema, del capitale, delle piattaforme, dei distributori, di Berlusconi. La verità è che ci sono veramente poche voci e quando ci sono, la reazione a queste voci è sempre pronta. Se c’è una voce nuova, che veramente sa raccontare, sa stupire, sa spiazzare da tutti i punti di vista, c’è sempre qualcuno pronto a raccoglierla. Ma di voci simili ce ne sono davvero poche e la cosa mi stupisce e non ti saprei davvero dare una risposta.
Corradi: Boris comunque innesca la pazzia anche in giovani che non sanno di essere autori.
Aliberti: Ho una curiosità. Boris mischia alto e basso e spesso ha innesti di genialità. Penso a quando René gira La formica rossa e recita la Poesia dei doni di Borges… Questi innesti sono straordinari e stranianti…
Mieli: Merito degli autori. Di tutti e tre. Mattia, Giacomo e Luca. E questo è il bello, se ripensi a cos’era la commedia all’italiana. Sono degli intellettuali, come Flaiano era un intellettuale. Solo un intellettuale può scrivere una commedia che ha dei picchi di genialità commoventi. Ecco, questa è la differenza. E loro lo sono, Mattia, Giacomo e Luca sono la differenza.

Boris 4, in “Dài, dài, dài! La vita a ca**o di cane” il produttore Lorenzo Mieli: “Francesco Pannofino? Umanità e purezza che ha messo in René Ferretti, l’unico buono della serie”
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