Finalmente possiamo tornare a occuparci di scuola e dei temi scottanti che il mondo della scuola intrinsecamente porta con sé: raffinate questioni didattiche, appassionanti dibattiti sulle competenze trasversali, il curricolo verticale e la programmazione orizzontale ma soprattutto i fattacci di cronaca sugli alunni che non vogliono consegnare il telefonino. L’indignazione per il fatto che in prima superiore si faccia una sola ora di Storia non è nemmeno paragonabile a quella che suscita una singola fanciulla che fieramente si oppone alla confisca del mezzo e allerta la famiglia che, compatta come un sol uomo, prontamente lo reclama.

L’opinione pubblica si scatena sul tema “questi ragazzi sono sempre attaccati al telefonino e le famiglie li spalleggiano” come neanche ai tempi di neutralisti e interventisti. Qui gli interventisti stanno ovviamente dalla parte di chi pontifica sulla serietà della scuola, sul rispetto delle regole, sull’incapacità dei giovani d’oggi di rispettarle e invocano il sequestro dell’oggetto in questione, spingendosi fino ad evocare la sua distruzione mediante il martello di Thor, in stile pubblica esecuzione.

Che sarebbe anche giusto, eh. Chiunque abbia la temerarietà di salire in cattedra sa quanto faticoso sia contendersi l’attenzione dei ragazzi distratti dai tik tok, e speriamo che guardino solo tutorial sui modi più ingegnosi di copiare e non certi barzellettieri d’antan.

Io, comunque, vorrei proprio capire da chi abbiano imparato a comportarsi così, questi ragazzi. Non riesco a spiegarmelo. Oddio, una mezza idea ce l’avrei, però. Potrebbero forse, ma dico timidamente forse, ispirarsi agli adulti che non si separano dal cellulare neppure al cinema? O a teatro? o al lavoro? Dove sono i fustigatori di costumi, quelli che invocano il sequestro dei cellulari a scuola quando ce ne stiamo immersi nell’oscurità della multisala e vediamo accendersi decine di schermini aperti sulle chat (senza nemmeno la buona creanza di abbassare la luminosità, che almeno i ragazzini lo sanno fare)?

Io sarei ben felice di avere il super potere, in classe, di sequestrare e polverizzare l’i-phone di qualcuno, specie se lo sta usando di nascosto durante la verifica dopo avermi consegnato un Nokia 3310. E sarei felice di veder irrompere a teatro una squadra ben addestrata di sfascia-smartphone che giustiziano senza pietà quelli che smanettano e whatsappano e fanno partire per errore il video di un labrador sul monopattino mentre l’orchestra esegue l’Eroica. Qui di eroica c’è solo la pazienza.

Dove sono i castigatori di cattive abitudini quando i cellulari si illuminano e squillano senza sosta in treno, rendendo tutti partecipi delle conversazioni più imbarazzanti, dalle invidiabili prestazioni notturne fino alla minuziosa descrizione del colore delle feci dell’infante?

Sì, però la scuola è la scuola. A scuola si rispettano le regole, è il luogo in cui si apprende a stare civilmente nella società. Vero, o almeno mi piacerebbe che fosse vero. Se fosse vero vedrei le regole rispettate, da tutti. E invece c’è sempre l’eccezione, il messaggio importante, la giustificazione, la reperibilità, il “no, non mi disturba affatto”, il “parla pure, ti sto ascoltando anche se scrivo al telefono”. Lo vediamo fare da tutti, sempre, ho visto cellulari accesi al Senato mentre parlava la senatrice Segre. Non sarebbero stati da spegnere anche quelli? Emaniamo regolamenti scolastici, prevediamo sanzioni disciplinari. Ma soprattutto impariamo a spegnerli un po’ anche noi, se vogliamo essere più credibili davanti ai ragazzi.

O almeno facciamo come a scuola quando si lavora per obiettivi minimi e scegliamo delle suonerie meno tamarre.

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