di Roberto Iannuzzi *

Un po’ come gli ultimi imperatori romani erano spesso costretti a scendere a patti umilianti con i vicini regni barbarici, i quali talvolta si ingerivano addirittura negli affari interni dell’impero, può capitare al presidente di un’America in crisi di dover incassare uno sgradevole rifiuto da parte di un paese satellite, il quale forse segretamente si augura che ciò possa favorire la sua sconfitta elettorale.

E’ successo a inizio ottobre, quando Riyadh ha ignorato le richieste americane di non tagliare la produzione petrolifera.

Alcuni mesi prima, a luglio, il presidente Biden si era recato a Gedda, in Arabia Saudita, per incontrare il principe ereditario e leader di fatto del regno, Mohammed bin Salman (Mbs, come spesso viene designato in base alle sue iniziali), allo scopo di rinsaldare i rapporti un po’ traballanti con un paese chiave del Medio Oriente e un produttore cruciale per gli equilibri del mercato petrolifero.

Prima di essere eletto, Biden aveva promesso che avrebbe trattato Mbs come un paria, per le sue pesanti responsabilità nell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi in Turchia, e per la sua sanguinosa guerra nello Yemen (presa di posizione ipocrita, quest’ultima, visto che gli Usa hanno fornito a Riyadh armi ed aiuto logistico nel conflitto). Tuttavia, dopo essersi insediato alla Casa Bianca, il presidente democratico aveva seguito una politica più accondiscendente con quello che restava pur sempre un partner strategico.

Gli obiettivi della visita presidenziale a Gedda erano molteplici: rinsaldare il fronte anti-iraniano, dare ulteriore impulso al riavvicinamento fra Arabia Saudita e Israele, ma anche fare in modo che Riyadh garantisse un’elevata produzione petrolifera per raffreddare il mercato energetico, sotto pressione a causa del conflitto ucraino. Il faccia a faccia con l’impulsivo Mbs si rivelò tuttavia disastroso, soprattutto per la decisione di Biden di rendere pubbliche le sue osservazioni critiche riguardo all’assassinio di Khashoggi. La cosa non andò giù al principe.

Ma ci sono anche ragioni strutturali che spiegano la crescente discordia fra Usa e sauditi. Fin dall’inizio contrari all’accordo nucleare con l’Iran, questi ultimi non hanno gradito nemmeno il progressivo disimpegno americano dalla regione, che li lascia maggiormente esposti in un possibile scontro militare con Teheran. Ed anche in campo energetico, le politiche di Washington e Riyadh hanno cominciato a divergere negli ultimi anni. Ancora nel 2014, l’Arabia Saudita inondò il mercato di petrolio in base a una probabile intesa segreta con gli Usa volta a danneggiare contemporaneamente Russia e Iran (Mosca era stata appena sottoposta a dure sanzioni occidentali per aver preso possesso della Crimea). Il greggio perse il 54% del suo valore, arrivando a toccare i 30 dollari al barile, ma i sauditi finirono per registrare oltre 100 miliardi di mancati introiti.

Più di recente, Riyadh ha deciso di seguire una politica energetica indipendente dagli Usa. Di fronte alla prospettiva di una recessione mondiale e di una conseguente riduzione dei consumi, il regno saudita ha deciso di promuovere la decisione dell’OPEC+ (composta dall’OPEC, dalla Russia e da altri paesi petroliferi) di tagliare la produzione di 2 milioni di barili al giorno per scongiurare un calo dei prezzi. A nulla è valsa la campagna di lobbying statunitense per convincere Riyadh a mantenere almeno inalterata la produzione, così da abbassare il prezzo del greggio e danneggiare la Russia (oltre ad aiutare il presidente americano in patria). Al contrario, il regno saudita ha addirittura emesso un comunicato denunciando le pressioni dell’amministrazione Biden affinché la decisione dell’OPEC+ fosse rinviata a dopo le elezioni americane di medio termine.

Di fronte all’insinuazione saudita che le pressioni della Casa Bianca avessero anche scopi di natura elettorale, vi è chi negli Usa sostiene che l’obiettivo di Riyadh fosse proprio quello di penalizzare Biden per favorire una vittoria repubblicana in vista di una possibile rielezione di Trump (con cui Mbs ha avuto buoni rapporti in passato). Sebbene Riyadh sia stata accusata di essersi schierata con la Russia, va rilevato che dal punto di vista saudita le politiche occidentali volte a promuovere un “price cap” sul petrolio (formando di fatto un cartello di paesi consumatori), e la decisione americana di immettere sul mercato un milione di barili al giorno dalle riserve strategiche Usa, danneggiano i paesi produttori.

Ma il dato più rilevante è che Washington non ha più, nei confronti dei sauditi, gli strumenti di pressione di cui poteva avvalersi in passato. Riyadh, che un tempo aveva combattuto al fianco di Washington contro la “minaccia comunista”, non ha problemi ad avere rapporti con la Russia ortodossa. I sauditi hanno inoltre diversificato le proprie relazioni d’affari e hanno nella Cina il loro principale partner commerciale. Possono acquistare armi da cinesi, russi ed europei. Infine, di fronte alla ventilata minaccia statunitense di approvare una legge antitrust che potrebbe colpire i paesi OPEC, i sauditi hanno già in passato affermato che potrebbero smettere di vendere il petrolio in dollari, una mossa che comprometterebbe lo status di valuta internazionale di cui gode il biglietto verde.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
Twitter: @riannuzziGPC
https://robertoiannuzzi.substack.com/

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