Siamo abituati a considerare il Sole quale maggior fonte di energia. A ragione: l’ampio spettro delle sue radiazioni genera direttamente energia tramite le tecnologie fotovoltaica e termica. E, nello stesso tempo, il Sole è il motore primo dei moti atmosferici e oceanici che sfruttiamo per produrre energia dal vento e dal mare. A sua volta, la Terra emette energia sotto forma di radiazioni a onde lunghe comprese nell’intervallo di lunghezze d’onda tra 4 e 100 micron, ossia nel campo dell’infrarosso. E ci sono stati quindi tentativi di sfruttare anche questo potenziale; per esempio, il Laboratorio Federico Capasso della Università di Harvard aveva balenato anni fa la possibilità di progettare dispositivi capaci di catturare potenze consistenti, fino a migliaia di Terawatt di emissioni a infrarossi della Terra. Era il 2014; poi, sono stati fatti ben pochi progressi.

Il pianeta Terra nasconde altre risorse, ben più consistenti. La sua temperatura cresce con la profondità e questa proprietà può tradursi in una risorsa quasi illimitata. Il concetto di utilizzare il calore interno della Terra per generare elettricità è molto semplice. Le temperature nel nucleo del pianeta si avvicinano a quelle che si trovano sulla superficie del Sole. Il calore talora fuoriesce: in alcuni zone del pianeta l’energia termica emerge in superficie sotto forma di lava fusa, fumarole e sorgenti termali. Più frequentemente, invece, il calore rimane intrappolato nei sedimenti profondi e nella roccia. E non è poco.

La temperatura aumenta mediamente tra 2 e 3 gradi centigradi ogni 100 metri di profondità, ma varia anche parecchio da località a località, da meno di un grado a 14 gradi in presenza di particolari fenomeni geologici. Secondo una recente stima, il calore nelle rocce della litosfera al di sotto degli Stati Uniti potrebbe fornire una potenza di più di 5mila Gigawatt di elettricità, quasi cinque volte quanto installato attualmente in tutte le centrali elettriche statunitensi. L’energia geotermica non brucia combustibili fossili e può funzionare 24 ore su 24, a differenza dei pannelli solari e delle turbine eoliche. Sfruttare quel calore, tuttavia, ha sempre incontrato molte difficoltà. Invero, la geotermia è una delle più antiche fonti di energia sfruttate dall’uomo. Gli studi archeologici svelano che il primo uso diretto avvenne almeno 10mila anni fa in Nord America, dove le popolazioni indigene erano attratte dalle sorgenti termali per ragioni sia spirituali, sia pratiche. Gli antichi Romani apprezzavano oltremodo le sorgenti calde, nella cui vicinanze non solo costruivano le Terme, ma usavano anche l’energia geotermica per applicazioni più banali, come il riscaldamento degli edifici.

Il primo sforzo industriale per sfruttare l’energia geotermica risale al 1818. In Toscana, l’ingegnere francese François Jacques de Larderel aprì la strada all’estrazione dell’acido borico dalle sorgenti termali. Al contrario di chi estraeva l’acido usando il fuoco per far evaporare l’acqua, de Larderel fu il primo a usare l’energia geotermica per controllare il processo. Il villaggio di Larderello crebbe attorno alla produzione industriale di acido borico, dove fu poi intrapreso il primo tentativo, riuscito, di produrre energia elettrica con la geotermia.

Il primo impianto per produrre elettricità dall’energia contenuta nel vapore geotermico fu realizzato a Larderello nel 1904, su iniziativa del Principe Piero Ginori Conti, succeduto a Larderel nella proprietà dell’industria boracifera (Figura 1). La prima macchina consisteva in un motore alternativo accoppiato a una dinamo. Il successo di questo esperimento mostrò il valore industriale dell’energia geotermica e segnò l’inizio di una forma di sfruttamento, oggi sviluppato in molti paesi. Anche se diffuso ovunque, il ruolo energetico della geotermia resta comunque marginale nel paniere energetico globale, al quale contribuisce poco più del 3 per mille. E gli impianti sono attualmente costruiti in aree ad alta attività tettonica, dove le rocce “calde” sono vicine alla superficie.

In Islanda, isola vulcanica attiva, aspirano l’acqua calda sotterranea per riscaldare gli edifici e generare l’elettricità, oltre l’85 percento di quella consumata. E in un paese dove il costo della vita è molto elevato, la bolletta media non supera i 10 euro ogni tre mesi. Nella maggior parte del mondo, tuttavia, nella roccia manca l’acqua, il vettore ideale, né le rocce sono abbastanza fratturate da portare facilmente il calore in superficie. Per decenni gli ingegneri hanno cercato di attirare il calore da dalle rocce granitiche del sottosuolo, che può raggiungere temperature di oltre 250 gradi centigradi. Ma sono sforzi in gran parte falliti, spesso con spese enormi e, talvolta, dopo fastidiosi terremoti artificiali.

Negli ultimi anni la tecnologia ha fatto qualche passo in avanti, in due direzioni. La prima, più tradizionale, riguarda la ingegnerizzazione dei metodi ormai tradizionali di fracking per iniettare acqua fredda in profondità, tra 3 e 4mila metri, raccogliendola poi in pozzi di risalita quando si è riscaldata a circa 200 gradi (Figura 2).

Molto più avveniristico è invece il tentativo di una start-up del Massachusetts Institute of Technology, Quaise Energy, che conta di raggiungere i 20 chilometri di profondità dove la temperatura sale a 500 gradi (Figura 3).

Nessuno dubita che l’energia geotermica supercritica abbia il potenziale per sostituire i combustibili fossili come fonte di energia dominante nel mondo, ma i tentativi del passato – come il pozzo super-profondo di Kola scavato nel 1970 dai sovietici per 12 chilometri di profondità (Figura 4) – sono stati finora un fallimento.

La crisi energetica in cui l’Europa è precipitata in modo affatto scellerato ci spingerà a esplorare seriamente questa possibilità?

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