di Chiara Piana

“Il diritto non deve mai adeguarsi alla politica, ma è la politica che in ogni tempo deve adeguarsi al diritto.” Questa è una citazione del filosofo settecentesco Immanuel Kant, il quale sostenne modernamente la supremazia del diritto sulla politica, riconoscendo che non possano esistere i cosiddetti “intoccabili” e che, pertanto, anche e soprattutto chi governa debba conformarsi alle leggi del proprio Paese, senza pretendere impunità o privilegi per via della propria posizione apicale. Si tratta di una concezione della giustizia riscontrabile già presso gli antichi greci, secondo cui essa era contraddistinta dall’incorruttibilità, la quale poteva garantire un giudizio equo e limpido sullo stato di colpa o innocenza degli uomini. Spesso, tuttavia, nel corso della storia la giustizia ha perso la propria purezza originaria e si è trasformata in uno strumento della classe dominante per contrastare qualsiasi forma di dissenso, pensiero critico o tentativo di cambiamento dell’ordine vigente.

A mio avviso, a onorare degnamente la giustizia autentica è stata la nostra Costituzione, la quale, oltre a sancire i diritti e i doveri dei cittadini, è stata imperniata su un altro sacrosanto e democratico principio: quello della separazione dei poteri, teorizzato da Montesquieu. Ai Padri Costituenti era chiaro, infatti, che l’indipendenza della magistratura dalla politica fosse un presupposto indispensabile per garantire l’effettiva uguaglianza dei cittadini e per assicurare che l’organo giudiziario si impegnasse ad amministrare la giustizia senza piegarla a gerarchie sociali e annessi privilegi.

Questa garanzia non può, però, essere data per scontata, specie in questi ultimi tempi; come ha ricordato l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato alla Festa de Il Fatto Quotidiano, una parte del nostro Paese non ha mai gradito la Costituzione del 1948 e ora vede soprattutto nelle forze politiche di destra la possibilità di intervenire per attuare cambiamenti a sé confacenti. Un’idea della linea che intendono seguire viene dalla riforma Cartabia, che (oltre all’orripilante improcedibilità) attribuisce al Parlamento il compito di indicare alle procure i criteri di priorità secondo cui affrontare i casi a loro pervenuti.

Essa legittima, così, una manifesta infrazione del principio di cui sopra, poiché consente alla politica (potere legislativo) di indicare alla magistratura (potere giudiziario) di cosa debba occuparsi primariamente e cosa, invece, debba momentaneamente o eternamente ignorare. Questa questione è spesso secondaria o inesistente per gli elettori (e nelle campagne elettorali), sia a causa della situazione globale contingente – l’attenzione va alla guerra e alla conseguente crisi economica dagli effetti ancora non del tutto prevedibili – sia per la diffusa percezione della giustizia come di un’entità astrusa e distante, le cui riforme non sembrano avere ripercussioni sui propri diritti costituzionali democratici.

È invece fondamentale ricordare, anche nei momenti di grave difficoltà, che la “madre di tutte le leggi” tutela diritti e libertà che riguardano ciascuno di noi, compreso quello alla giustizia, attraverso la cui amministrazione si può capire se si vive in una società orizzontale, nella quale tutti meritano lo stesso trattamento di fronte alla legge, o se la comunità ha un assetto verticale, per cui chi è in alto domina e chi è in basso subisce. Quest’ultimo è l’assetto, incarnato dal dottor Azzeccagarbugli ne I Promessi Sposi, contro cui le classi sociali inferiori hanno lottato per affermare la giustizia autentica e non quella di parte. Oggi, invece, la maggioranza della popolazione rischia di trovarsi nei ruoli di Renzo e Lucia, ossia in balia di una giustizia che non tende al socratico benessere collettivo, ma che è l’utile del più forte, come suggerito da Trasimaco nella Repubblica di Platone. È opportuno esserne consapevoli, per poter assegnare coscientemente il proprio voto.

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