Non è chiaro cosa gli agenti dell’Fbi cercassero. Né cosa abbiano trovato nella residenza di Donald Trump di Mar-a-Lago. Ma la perquisizione tra le carte di un ex presidente è un fatto sicuramente straordinario, mai verificatosi nella storia degli Stati Uniti, tale da provocare, già in queste ore, una valanga di ricadute politiche e di valutazioni legali.

Iniziamo dagli aspetti legali. La perquisizione deve, ovviamente, essere stata approvata dall’attorney general Merrick Garland e dal capo dell’Fbi Christopher Wray. Wray è un repubblicano, nominato alla testa del Federal Bureau of Investigation proprio da Trump nel 2017. Garland è un ex giudice di cui sono note prudenza e moderazione. Per mesi è stato sotto attacco dei settori più progressisti del partito democratico proprio a causa della sua scarsa propensione a formalizzare un’inchiesta giudiziaria nei confronti di Trump.

Se Garland e Wray decidono dunque di dare il via libera a un’operazione esplosiva come la perquisizione nella residenza privata di un ex presidente, devono averci a lungo riflettuto. Siamo a pochi mesi dalle elezioni di midterm. Trump ha già fatto capire molto chiaramente che vuole ripresentarsi alle Presidenziali del 2024. In questa situazione, la perquisizione è destinata a provocare un terremoto. Lo sta già facendo. Garland e Wray lo sanno eppure decidono di andare avanti. Significa che, almeno dal loro punto di vista, pensano di avere elementi tali da sostenere l’accusa nei confronti di Trump e l’onda di critiche che su di loro, sull’Fbi e sul Dipartimento alla Giustizia, si sta abbattendo.

C’è poi un altro elemento da valutare. La perquisizione di Mar-a-Lago è stata approvata da un giudice federale della Florida, Bruce Reinhart. Quando un giudice federale dà il via libera a un search warrant, a un mandato di perquisizione, significa che ha buone ragioni per credere che un crimine sia stato commesso e che le prove del crimine che gli investigatori gli sottopongono si trovino ancora nella casa in cui la perquisizione verrà effettuata. In questo caso, poi, è possibile immaginare che da parte di Reinhart ci sia stato un sovrappiù di prudenza. Anche lui sa di mettere il suggello a un’operazione senza precedenti e dalle conseguenze imprevedibili.

Trump e i suoi avvocati avevano già consegnato alle autorità federali 15 scatoloni di documenti presidenziali all’inizio dell’anno. Il Presidential Records Act del 1978 richiede del resto che tutti i documenti prodotti nel corso di un mandato presidenziale vengano consegnati, a fine mandato, ai National Archives. Cosa che, per l’appunto, Trump non ha fatto, portando con sé nel gennaio 2021 migliaia di carte e note riservate. A giugno agenti dell’Fbi avevano fatto una visita nella residenza di Mar-a-Lago ed è probabilmente in quell’occasione che è emersa la presenza di almeno altri 10 scatoloni di documenti, oltre i 15 già consegnati. Da allora, per settimane, tra gli agenti dell’Fbi e gli avvocati di Trump ci sono stati diversi scambi di mail e telefonate.

Nel sequestro di queste ore c’è dunque un altro elemento che salta immediatamente agli occhi. L’FBI e il Dipartimento alla Giustizia sono arrivati alla conclusione che sarebbe stato impossibile ottenere le carte ancora in possesso di Trump attraverso mezzi amichevoli e negoziati non ufficiali. E hanno scelto la via dirompente della formalizzazione giudiziaria. Tutto questo per dire che la perquisizione non è un evento estemporaneo. È il risultato di mesi di indagini, di raccolta di prove, di riflessioni da parte delle massime cariche federali (anche repubblicane, come nel caso di Wray) passate al vaglio delle autorità giudiziarie che alla fine hanno deciso che un’ipotesi di reato è cosa concreta. Ciò non significa, vale la pena di ripeterlo, che per Trump scatterà automaticamente l’incriminazione. Significa che, sulla base delle esperienze giudiziarie passate e dei passi sin qui intrapresi, un’incriminazione è altamente possibile, con le conseguenze che già vengono ipotizzate. Una multa. La prigione. L’interdizione dai pubblici uffici (ciò che non consentirebbe a Trump di ripresentarsi nel 2024).

Accanto alla questione legale e giudiziaria, c’è poi quella politica, che procede per canali propri, sulla base delle convenienze del momento e dello scontro partigiano. Era altamente probabile che il blitz a casa di Trump provocasse le reazioni indignate dei repubblicani. È ciò che sta puntualmente avvenendo. Kevin McCarthy, il leader repubblicano della Camera, parla di “intollerabile stato di politicizzazione armata” e arriva a minacciare Garland. “Conservi le sue carte e si tenga l’agenda libera”, dice McCarthy, ipotizzando l’apertura di un’inchiesta contro l’attorney general nel caso probabile che i repubblicani riprendano il controllo del Congresso a novembre. C’è chi, come il senatore Marco Rubio, paragona gli Stati Uniti di Biden al Nicaragua di Daniel Ortega, “con l’arresto e l’incarcerazione di ogni singola persona” che ha deciso alle ultime elezioni di correre contro Ortega.

Anche chi sicuramente non simpatizza con Trump fa ora quadrato attorno a lui. Ron DeSantis, governatore della Florida e principale avversario di Trump nella conquista della candidatura repubblicana del 2024, parla di “escalation delle agenzie federali, trasformate in armi contro gli oppositori politici del regime”. E del tutto ovvia appare l’esplosione di commenti incendiari da parte dei media e delle personalità conservatrici che hanno accompagnato e sostenuto la parabola politica di Trump. “Questo. Significa. Guerra”, scrive The Gateway Pundit, un giornale online di stretta osservanza trumpiana. “Domani ci sarà la guerra. Dormite bene” è stato il commento a caldo di un commentatore conservatore, Steven Crowder, con quasi 2 milioni di follower su Twitter. “Il Paese è sull’orlo della GUERRA CIVILE?” si chiede Nicholas Fuentes, altra personalità del mondo nazionalista bianco. Da notare, peraltro, come molte di queste dichiarazioni siano segnate da una violenza per ora solo verbale, linguistica, che però rischia di accendere ulteriormente lo scontro politico.

Oltre alle parole, è però possibile già valutare le prime ricadute politiche. I candidati appoggiati da Trump hanno dato ottima prova di sé nelle primarie repubblicane che si sono tenute martedì sera, proprio a poche ore dalla perquisizione. In Connecticut la trumpiana Leora Levy ha battuto il candidato ufficiale scelto dal partito repubblicano dello Stato per il seggio al Senato. Levy, poco prima del voto, aveva definito la perquisizione “un assalto alle nostre libertà”. E trionfale è stato il risultato di Tim Michels, il candidato che Trump ha scelto per la carica di governatore in Wisconsin. “Se il governo federale può fare questo a un ex presidente, immaginate cosa può fare a un normale americano”, è stato il commento di Michels dopo il raid.

Magari i candidati trumpiani avrebbero vinto anche senza l’operazione dell’Fbi a Mar-a-Lago. Ma è chiaro a tutti, anzitutto nel partito repubblicano, che l’irruzione degli agenti federali offre a Trump un’immensa opportunità: quella di soffiare sul fuoco della persecuzione politica, trasformando l’ex presidente in una vittima, nell’alfiere della resistenza a un regime che cerca incessantemente di privare gli americani delle loro più sacre libertà. “Possiamo chiudere qua”, è stato il commento di John Thomas, uno stratega repubblicano che lavora alla candidatura di Ron DeSantis per le presidenziali 2024. Come a dire, non c’è più storia, il raid spiana la strada a Trump per il 2024, fa fuori tutti gli altri possibili candidati, compatta il mondo conservatore attorno al suo leader.

Non è detto, comunque, che quello che conviene a Trump convenga anche al partito repubblicano. E questo è l’altro lato della medaglia che molti nel partito già intuiscono. Sinora i repubblicani hanno fatto campagna per il midterm del prossimo novembre sulla base di alcuni temi: inflazione, prezzo dei generi di prima necessità, sicurezza, debolezza degli Stati Uniti nel mondo. L’operazione politica stava procedendo magnificamente, aiutata anche dal bassissimo indice di gradimento di Biden. Dopo l’arrivo dell’Fbi a Mar-a-Lago, il tema è tornato a essere un altro: Trump. Ancora una volta, l’ex presidente torna al centro della scena politica. Le sue vicende giudiziarie assorbono tutto. Le polemiche attorno alla sua figura – taumaturgica per alcuni, disastrosa per altri – non lasciano possibilità di articolare alcun altro discorso. Si tratta di una dinamica che ha svolto un ruolo decisivo alle presidenziali 2020. Una parte consistente dell’elettorato indipendente, in quell’occasione, abbandonò i repubblicani proprio a causa del continuo stato di crisi ed emergenza democratica generati da Trump.

La cosa potrebbe ripetersi nelle prossime settimane, soprattutto nel caso in cui Trump decidesse di abbandonare ogni residua prudenza e lanciare la sua candidatura per il 2024 prima delle elezioni di midterm. Per lui si tratterebbe di sfruttare al meglio lo sdegno che l’operazione dell’Fbi ha provocato in molti elettori conservatori. Per i repubblicani, si tratterebbe di un colpo durissimo: tornare a essere appiattiti sulla personalità ingombrante, caotica, totalizzante, divisiva di Trump. Senza contare un altro aspetto. La caccia ai documenti di Mar-a-Lago è solo una delle possibili bombe giudiziarie pronte a scoppiare attorno a Trump. In Georgia l’autorità giudiziaria indaga sulle telefonate che il tycoon fece al locale segretario di Stato per chiedergli di “trovare i voti” che gli consentissero di battere Biden. A New York procede a ritmo spedito l’inchiesta dell’attorney general Letitia James sugli affari di famiglia di Trump. Sono vicende che aggiungono instabilità a instabilità, che stravolgono il panorama politico americano e che rendono ancor più accidentato, imprevedibile, confuso il percorso verso i prossimi appuntamenti elettorali negli Stati Uniti.

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