Le cessioni dei crediti generati con il Superbonus 110% e le altre agevolazioni edilizie generano nuovo debito pubblico o no? A due anni dalla nascita della tormentata normativa, la questione è ancora aperta e, ben più delle truffe, costituisce l’incognita principale della maxi detrazione fiscale per gli efficientamenti energetici. Specialmente ora che lo spread e i conti pubblici sono tornati all’ordine del giorno.

Non a caso Mario Draghi, nel suo intervento al Senato dello scorso 20 luglio, ha trovato spazio anche per il Superbonus che, ha detto, non è il vero problema, “il problema sono i meccanismi di cessione che sono stati disegnati: chi ha disegnato quei meccanismi di cessioni senza discrimine e senza discernimento, lui o lei o loro sono i colpevoli di questa situazione in cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti. Ora bisogna riparare al malfatto, bisogna tirar fuori dai pasticci quelle migliaia di imprese che si trovano in difficoltà”.

Stupore in aula: dopo il decreto antifrode di fine 2021, nel 2022 il meccanismo di cessione dei crediti fiscali generati da ristrutturazioni edilizie è stato modificato almeno altre sei volte, mandando nel caos banche, imprese, cantieri e famiglie che sono finite nel tritacarne della più squisita burocrazia italiana. Quella per cui devi compilare carte su carte, rispondere a questionari improbabili, fornire documenti in quantità e qualità paragonabili a una caccia al tesoro, ma il tuo interlocutore non è in grado di dirti se e quando sarai a posto. Perché non lo sa. Anche se è pagato fior di quattrini.

Quella burocrazia propria dell’incertezza del diritto, insomma. E dell’improprietà dell’incarico, con i direttori degli uffici postali che si improvvisano funzionari del fisco e convocano il venditore di crediti per verificare se i lavori sono stati effettivamente svolti e con quali soldi. E le società di revisione che si sono trovate a gestire partite milionarie con piattaforme già inadeguate, che si sono intasate mentre erano in mano a schiere di neolaureati.

E intanto le banche che dovrebbero finanziare i lavori che generano i crediti, passano il tempo ad adeguarsi alla normativa che cambia di continuo e con loro i clienti, quelli che riescono a resistere senza perdere pazienza, impresa, cantiere, soldi e Superbonus. E che vanno a sbattere contro la scadenza dei termini per accedere all’agevolazione che arriva in un batter d’occhio dopo mesi spesi a dotarsi dei requisiti aggiunti via via dai correttivi alla normativa, senza neanche aver mosso un mattone. E così quando hanno messo l’ultima carta sul castello, si rischia che la postilla della postilla della postilla faccia cadere tutto.

Non va meglio sul fronte delle imprese che si sono accollate il credito sotto forma di sconto in fattura e non sono riuscite ad incassarlo: soltanto Cna ne ha contate più di 30mila che sono strette nella morsa dei crediti incagliati a causa del freno alle cessioni che ha paralizzato il mercato. I correttivi introdotti nei giorni scorsi col decreto Semplificazioni hanno parzialmente rimediato al caos, equiparando i vecchi crediti a quelli successivi al primo maggio. Tuttavia se il mercato non riparte e nessuno li compra, serve a poco, come fanno notare da Cande, la Class action nazionale dell’edilizia che chiede a gran voce una soluzione.

Questi mostri però li ha generati lo stesso esecutivo Draghi. Si, è il non detto, ma solo perché non è riuscito a sminare il problema ontologico della cessione dei crediti fiscali. Cioè la possibilità stessa di monetizzare alla nascita i crediti facendoli passare di mano in mano. Eppure l’Ufficio parlamentare di bilancio all’approvazione della norma sulla cessione dei crediti, nella primavera del 2020, lo aveva detto e scritto in modo molto chiaro. Un conto è offrire al contribuente la possibilità di compensare con le tasse un credito di massimi 48mila euro in dieci rate annuali, un conto è dargli un credito senza limiti assoluti di spesa già incassabile in metà tempo sempre a patto di produrre reddito e quindi tasse con cui compensarli, ma addirittura vendibile in un’unica soluzione al migliore offerente. Che a sua volta, a seconda della sua capacità di spesa, può comprarne quanti ne vuole da altre persone o imprese.

Nel primo caso sono debiti di lungo termine che possono annullarsi per più di un motivo. Per esempio se il creditore perde il lavoro e non ha redditi, quindi tasse, con cui compensarli. Nel secondo caso no. Questo, anche alla luce del peso economico dei crediti che in un anno e mezzo hanno abbondantemente superato i 35 miliardi di euro, comporta un differente trattamento contabile nel bilancio dello Stato? La domanda è stata girata direttamente a Eurostat dall’Istat. L’istituto di statistica europeo nel maggio scorso ha parlato di creature borderline e la questione è da allora ancora aperta. Non perché ci sia un caso Italia precisano da Lussemburgo, ma perché si sta discutendo a livello europeo di un problema metodologico che riguarda anche gli altri Paesi per creature simili ai nostri pacchetti di crediti fiscali immessi sul mercato. E finché la discussione non sarà chiusa, con tanto di inclusione della voce nel manuale comunitario sul disavanzo e debito pubblico, non sarà possibile avere regole precise sulla registrazione dei debiti fiscali nel bilancio dello Stato.

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