Una volta mi disse che in fondo siamo tutti uomini di cenere, che è diverso dalla polvere, perché significa che alla fine le nostre vite si bruciano, ma di quel fuoco resta il ricordo, appunto, la cenere dei nostri corpi, della nostra brevissima esistenza. Per questo molti conservano le ceneri dei propri cari, ma ci sono anche molti altri che le disperdono nel vento, in mare, in cima ad una montagna, laddove chi ci ha lasciato si sentiva come in paradiso. A Eugenio Scalfari piaceva Marco Aurelio, e fu l’imperatore filosofo a scrivere che ogni essere umano è fumo e cenere e che le cose per cui si combatte tanto non sono che gli ossi intorno ai quali si azzuffano i cani per strada.

Scalfari è stato il mio direttore per oltre vent’anni: fu un’epopea indimenticabile, indimenticata, frenetica. E anche gioiosa. Mai nessun altro gli è stato alla pari, come ieratico monarca (quasi assoluto) d’un giornale, la barba bianca gli conferiva autorevolezza e saggezza, un’aria da profeta della carta stampata.

Ma ormai, il “vascello corsaro è diventato una corazzata” (così enfatizzò in un’assemblea per giustificare il cambio di proprietà e quindi la necessità di importanti finanziamenti). Cambiavano le strategie. Cambiavano altre cose, e noi che eravamo stati i “ragazzi del ‘76”, ossia i giornalisti “fondatori”, temevamo che sarebbe cambiato pure il dna di Repubblica. Capimmo che la trionfale stagione di Repubblica non sarebbe stata più la stessa, anarchica e irriverente, ed infatti fu ineluttabilmente così: “Oighen” (come certe volte lo chiamavamo, a me non piaceva il soprannome che qualcuno gli aveva affibbiato, “Barbapapà”) era un innovatore. Ci disorientava l’ipotesi, mica tanto campata per aria, che dopo ci sarebbero stati dei successori “normalizzatori”. Dei manager del giornalismo. Tutto sarebbe stato più prosaico. E tutto più gerarchico. Diversamente dalle premesse, che erano state anche belle promesse…

Quando fui assunto – nell’ottobre del 1975, il contratto iniziava il primo dicembre del 1975 – Scalfari mi aveva convinto che avrei potuto partecipare ad una vera e propria avventura giornalistica, una sorta di rivoluzione copernicana nel piccolo, provinciale universo stantìo dei quotidiani italiani.

Ed era questo, il sentimento collettivo, nella neonata redazione di Repubblica, che ci faceva sopportare gli esagerati carichi di lavoro, “un sacrificio iniziale necessario, dopo, se le cose andranno bene, sarà tutto meglio”, ci consolavano i capi. Speravamo nell’efficacia della martellante campagna promozionale di Scalfari, che girava l’Italia per lanciare il suo giornale e raccogliere fondi: “O credi al Tg o credi a la Repubblica”, si leggeva sui grandi manifesti che tappezzavano le città, soprattutto nei capoluoghi di provincia, afflitti da una stampa spesso servile e curiale. Voleva esportare lo spirito dell’Espresso, quello delle grandi, spregiudicate e clamorose inchieste, nelle pagine di un quotidiano che garantiva credibilità, serietà, veridicità e libertà d’espressione. Prometteva qualità, prestigio, passione: la garanzia? Stava ingaggiando le firme migliori e aveva aggregato tanti giovani promettenti che non aspettavano altro se non quello di essere mandati in giro (c’è chi dice “allo sbaraglio”) per fare reportages.

La sua rivoluzione, mi assicurò Scalfari prima di congedarmi dal colloquio d’assunzione, sarebbe stata totale. A cominciare dal formato. Grafica. Contenuti. Voleva seppellire certe convenzioni, come quella della terza pagina (la cultura la volle al centro del giornale). Il problema, aggiunse, semmai era di natura economica.

Servivano tanti soldi. E tanto coraggio, perché avremmo dovuto lottare contro tutti, e anche contro l’establishment: bisognava affermarsi, cioè vendere. Per pareggiare i conti avremmo dovuto raggiungere almeno centomila copie a metà del secondo anno e centoventimila alla fine del terzo anno. Il rapimento Moro fu il volano del successo, è cinico doverlo ammettere, ma Scalfari seppe destreggiarsi nella tragedia umana e politica, facendola diventare universale ed epica, e la lotta al terrorismo una sorta di guerra della civiltà contro il caos. Ma accogliendo più punti di vista, e mai assumendo toni forcaioli.

Aveva infatti il dono di una infinita libertà interiore, difendeva con ardore i valori del riformismo, del socialismo liberale e libertario, si considerava l’ultimo degli illuministi, ammirava Diderot e Voltaire ed anche gli atti fondanti dell’esperienza umana (compresi quelli religiosi), predicava una politica capace di trasformare un Paese arretrato e bigotto in una comunità moderna, europea, mai populista, epperò capace di analizzare i fenomeni emergenti della politica, della cultura, del costume, dei nuovi media. Era per principio tollerante, sebbene spesso manifestasse atteggiamenti intolleranti nei confronti degli stupidi, dei fascisti, dei ladri, delle razze padrone.

Ho un ingorgo mentale di tristezza e un grande vuoto: gli devo molto, a Eugenio. Mi ha subito dato fiducia. Apprezzava e valorizzava il talento dei suoi “poulains”, alternando comunque carezze e frustate. Era inguaribilmente vanitoso, ma accompagnava il suo ego con dosi abbondanti d’ironia.

L’inizio delle riunioni di redazioni erano memorabili monologhi, mai casuali: per noi, fedeli adepti, erano vere e proprie messe cantate. Quando qualche potente lo importunava al telefono, metteva il vivavoce e mimava l’interlocutore. Il volto era irridente, la voce cortese, mai però deferente.

Ricordo Gianni Agnelli che lo chiama per lamentarsi di un mio articolo, era il marzo del 1993, in piena Tangentopoli. Avevo scritto che alla Bocconi, in occasione di un convegno che concludeva un ciclo di “riflessioni sopra le responsabilità politiche della classe dirigente dell’economia”, gli studenti l’avevano contestato duramente. L’Avvocato disse che non era vero, pretendeva una smentita: secondo lui, metà degli studenti l’aveva addirittura applaudito. Scalfari, sornione, replicò che se il suo inviato l’aveva scritto, significava che era vero. Terminata la telefonata, Eugenio si rivolse a Paolo Garimberti, notoriamente amico dell’Avvocato, e gli chiese di acquietarlo. Poi, mi squadrò con sguardo indagatore: “E’ vero?”. “Certo che sì: quando sono entrati Agnelli e Cesare Romiti, sono stati accolti da una poderosa bordata di fischi e qualcuno ha gridato anche abbasso la Juve!“. Scalfari sogghignò. Il titolo l’aveva fatto lui, “Il giorno dei fischi”.

Erano le settimane bollenti di Tangentopoli, il presidente Oscar Luigi Scalfaro aveva appena detto no al decreto anti-tangenti e il ministro per l’Ambiente Carlo Ripa di Meana, altro amico di Scalfari, si era appena dimesso. Inoltre ad informare Scalfari aveva provveduto il presidente del Consiglio Giuliano Amato, che era l’ospite d’onore del convegno, e che appena sceso dalla sua Thema blu era stato bersagliato da grida assai poco amichevoli, “ladri! Ladri!”, “buffone, buffone!”. Repubblica non stava dalla parte dei ladri di regime…

Scalfari conosceva le manfrine del potere, voleva smascherarle e addomesticarle. La Repubblica era diventata la voce di un partito trasversale che metteva ai primi posti la lotta contro le mafie, la corruzione e la difesa dell’ambiente. Il sogno durò quei vent’anni, forse qualcosina di più. Ma lentamente ed inesorabilmente, il giornale cominciò ad assomigliare – dapprincipio nelle dinamiche interne – agli altri giornali, quelli che Scalfari aveva combattuto e sconfitto perché conservatori, reazionari, legati ad una visione ingessata della società civile. Soprattutto all’inizio, Eugenio aveva rappresentato e difeso con le unghie e coi denti la peculiarità della nostra redazione, in nome del progressismo. Vantava d’avere tra i ranghi la più alta percentuale di giornaliste, così come la quota più elevata di giovani (certo, lo sapevamo che risparmiava sugli stipendi…), però era la verità. Il mix di grandi firme e di aspiranti tali metteva in campo la formazione più eterogenea e valida d’Italia.

Derivava da tutto ciò un forte senso di appartenenza. Di identità. Eugenio era un gran manipolatore – in senso buono – il suo karma ci stregava. Più che un direttore, ci pareva un grande padre, talvolta affettuoso compagno di viaggio. Magari burbero, spesso istrione come nessuno durante le suggestive “messe cantate” del mattino, dopo la distribuzione dei cornetti e dei caffè; gigione, malizioso, seduttore; gli capitava d’essere lieve e sbarazzino coi giovani, galante con le donne, altre volte sapeva essere severo, spesso era generoso anche con chi non se lo meritava.

Era un uomo vulcanico, geniale, affascinante. L’avevo incrociato spesso in via Festa del Perdono, a Milano. Io ero studente alla Statale, lui abitava in una casa che si trova proprio davanti al bar d’angolo di via Festa del Perdono, prima di arrivare in piazza Santo Stefano. D’inverno, girava intabarrato in un mantellone scuro, in testa calcava un cappello di feltro. Aveva una Cinquecento che lasciava nel parcheggio della piazza. Ogni tanto s’incontrava con Mario Capanna, allora uno dei leader milanesi del Sessantotto. Potrei scrivere un libro, sono sommerso da ricordi, aneddoti, colloqui, complicità (quando mi chiamava per sapere che tempo facesse a Milano, perché così poteva dire d’essere nella redazione milanese e non a Venezia, dove aveva una storia d’amore…). Forse dovrei, forse glielo dovrei.

Certi hanno bisogno d’appartenere a un gruppo – saremo d’ora in avanti gli orfani di Scalfari – come un tempo sono appartenuti alle loro madri, una specie di servitù volontaria. Altri raccontano l’esperienza vissuta e convissuta, ed invidio chi lo farà discettando di politica, di filosofia, dello speciale rapporto col Papa, della sua leggendaria carriera, dell’ambiente “radical chic” (ehm, c’è ancora chi lo scrive), delle sue infinite contraddizioni, della sua propensione alla mondanità, delle serate in terrazza a Trastevere, della formidabile amicizia con il principe Carlo Caracciolo, suo eterno sodale, delle sue mitiche arrabbiature (“stai attento, stai per entrare nel cono d’ombra”, minacciava, guai a finirci); o di quando si sdraiò davanti all’ascensore per fermare Paolo Guzzanti che voleva andarsene via (come poi farà).

A differenza di san Paolo, non rinnego l’ammirazione per Eugenio Scalfari: era un uomo straordinario, oltre che un gigante del giornalismo. Il mio Direttore. Per sempre. Nei suoi tanti pregi. Nei suoi moltissimi difetti. Come ognuno di noi. Solo, di più. E meglio.

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