Le intenzioni volte a indebolire l’autonomia della magistratura (in particolare dei pubblici ministeri) rispetto agli organi di indirizzo politico, e a consentire candidature di persone “impresentabili” agli organi di rappresentanza politica, sono state pesantemente frustrate dall’esito referendario di domenica 12 giugno: è un bene. Tra l’altro, il referendum per l’abrogazione dell’intero (!) “testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi” (decreto legislativo n. 235 del 2012) non si sarebbe dovuto neppure effettuare in quanto tale disciplina legislativa corrisponde alla figura della “legge costituzionalmente necessaria”: ovvero, una disciplina legislativa che può eventualmente variare (mediante modifiche), ma che non può mancare. In questa materia è inammissibile il vuoto legislativo, che invece si sarebbe prodotto se al voto referendario del 12 giugno fosse prevalso il “sì” all’abrogazione, in presenza del quorum di partecipazione al voto.

Non è condivisibile la pronuncia della Corte costituzionale dello scorso febbraio (n. 56 del 2022) con cui era stato dichiarato ammissibile tale quesito referendario, non ravvisando un obbligo costituzionale, in base al quale “deve necessariamente sussistere una disciplina dell’incandidabilità”. E’ questa un’affermazione “sconcertante”. Si direbbe infatti, all’opposto, che secondo i principi costituzionali una disciplina dell’incandidabilità non possa certo mancare.

Quanto ai promotori dei cinque referendum del 12 giugno, va rammentato che le richieste referendarie non sono frutto di iniziativa popolare (almeno 500mila elettori, come dispone l’art. 75 Cost.); sono bensì frutto del voto dei Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, tutte pro tempore (estate del 2021) a maggioranza di centro-destra. Una iniziativa – questa dei Consigli regionali – riguardante discipline che esulano dalla competenza delle Regioni. Con tutte le possibili decisioni che le Regioni sono legittimate ad assumere in delicatissime materie di loro competenza – ad iniziare dalla sanità per passare poi all’urbanistica, ai trasporti locali, all’assistenza sociale, al commercio, alla valorizzazione dei beni ambientali, allo sviluppo dell’agricoltura, alla sicurezza nei luoghi di lavoro, e molto altro ancora – le nove Regioni con le loro iniziative referendarie si sono fatte paladine di una riforma dell’ordinamento giudiziario volta sostanzialmente ad incrinare l’autonomia della magistratura; e di una riforma della disciplina della rappresentanza politica volta sostanzialmente a consentire “ai meno probi” e ai “più spregiudicati” di fare – e di continuare a fare – politica all’interno dei più nobili consessi (come il Parlamento e gli stessi Consigli regionali).

Che il sistema della magistratura abbia vari “nei dannosi” e che funzioni con gravi difficoltà è evidente a tutti: meriterebbe una urgente – ma nel contempo assai attenta – riforma. Così come è evidente che andrebbe formulata una organica e acuta disciplina dei criteri di selezione della rappresentanza politica nelle istituzioni. Ma per avviare siffatte riforme la via intrapresa dalle nove Regioni con le loro iniziative referendarie è del tutto errata, nel metodo e nel merito. L’esito referendario (“solo un italiano su dieci – cioè cinque milioni sui 51 aventi diritto al voto – ha votato per l’abrogazione”) ha certificato il grave errore (si aggiunga la spesa a carico della finanza pubblica per l’allestimento di cinque referendum nazionali), e lo ha certificato in modo tanto clamoroso che ora i componenti di maggioranza di ciascuno dei nove Consigli regionali, che hanno deliberato le cinque richieste di referendum, dovrebbero dignitosamente dimettersi in modo contestuale, determinando così lo scioglimento del Consiglio e l’elezione di un nuovo Consiglio regionale (a norma dell’art. 126, Cost.).

Ma questo coerente passo non sarà di certo compiuto. D’altronde (come ora si è accennato) manca una organica e acuta disciplina dei criteri di selezione della rappresentanza politica nelle istituzioni (Consigli regionali compresi, s’intende).

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