Cultura

Premio Strega, Veronica Raimo e Alessandro Bertante tra i finalisti: le nostre recensioni di “Niente di vero” e “Mordi e fuggi”

di Davide Turrini e Ilaria Mauri

Tutto vero o “Niente di vero“? È impresa ardua, se non definitivamente impossibile, capire fino a che punto Veronica Raimo ci sta intortando. “Ho sempre trovato fallace il detto: “Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”; nella mia esperienza le menzogne hanno l’intrinseca qualità di generare coerenza, nessi causali, inferenze. […] Questa è la mia teoria: basta lasciarlo lavorare in pace e il diavolo fa sia le pentole che i coperchi“, è la dichiarazione di metodo che butta lì, ad un certo punto, mentre racconta tutt’altro. E ancora, scrive: “Nella mia famiglia ognuno ha il proprio modo di sabotare la memoria per tornaconto personale. Abbiamo sempre manipolato la verità come se fosse un esercizio di stile, l’espressione più completa della nostra identità”. Quel “Niente di vero” significa quindi ciò che suggerisce o è uno schermo per non fare i conti con la realtà o fingere di non farlo? Sembra un’inezia, non stiamo qui a perder tempo in quisquilie direte voi, eppure aver ben chiaro il sottile gioco messo in campo dall’autrice con il suo sottolineare in primis come tutto sia falso salvo poi convincere il lettore del contrario è cruciale per comprendere appieno questo libro. “Niente di vero” (Einaudi) il caso letterario del momento, oltre che uno dei libri finalisti al Premio Strega 2022, è un’altalena nauseante nella mente della voce narrante (che per il sopracitato dilemma non possiamo attribuire di default all’autrice). Fin dalle prime righe avviluppa il lettore e lo trascina vorticosamente in una nebulosa di supposti ricordi che diventano (ri)scrittura, (ri)organizzazione dei pensieri, un espediente per (ri)mescolare le carte. La protagonista è oltremodo egocentrica e egoriferita, con la tendenza a rimarcare la sua personalità multiforme a partire dai nomi distorti con cui la chiamano i suoi genitori, Verika e Oca: “Non ho mai avuto un’immagine di me nel futuro che non fosse del tutto velleitaria. Le velleità di solito servono a ingannare se stessi, mentre io volevo ingannare gli altri”, scrive. Con fare vittimistico e una forzata mollezza, impone il suo punto di vista, la sua versione dei fatti, a partire dall’infanzia fertile di traumi. È figlia di una madre nevrotica e iperapprensiva che quando aveva gli attacchi di emicrania si metteva a letto con una bandana in testa e Rai Radio 3 in loop; e di un padre ipocondriaco, germofobico – arriva ad avvolgerla nello Scottex per non farla sudare e a passarla con l’alcol per non farle fare la doccia – e con la perversione di costruire muri e tramezzi per tutta casa. La noia è il sentimento che segna le sue giornate da bambina, la lettura unico passatempo concesso, il fratello il suo rivale ontologico, e il nonno l’unico familiare che mai le abbia manifestato il suo affetto: “Non ho mai più avuto una persona che mi stringesse le mani mentre pativo sulla tazza del cesso. Chiederlo non è facile. Mi sono restate solo la solitudine e l’inadeguatezza”. La geografia è accuratissima. Roma, periferia nord-est, Berlino e la Puglia: pagina dopo pagina, si sgretolano uno dopo l’altro tutti i luoghi comuni delle autobiografie nazionalpopolari. La mamma non è materna, la nonna è una (possiamo dirlo?) stronza e il padre è tutt’altro che canonico. Questo libro è il bildungsroman di una vita surreale narrata con una verve artificiosamente ironica, puntellata di iperboli tristemente comiche. Una culla di malcontento che ben rispecchia la bolla di vuoto cosmico in cui si ritrovano tanti quarantenni in fuga dalla realtà, la generazione della Raimo. Tra nevrosi e gelosie, una saga familiare costellata di paradossi narrata con pungente precisione. Voto: 7.

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