Otto capannoni per una produzione convenzionale (dunque, non biologica) di 2,5 milioni di polli all’anno a 250 metri dalla sua proprietà, che comprende la dimora storica dell’800 dove vive insieme alla sua famiglia. Quello di un allevamento intensivo a un tiro di schioppo da casa è un incubo che si allontana per Andrea Tesei, che vive a Monte Roberto (Ancona), in quell’area delle Marche ormai soprannominata la valle dei polli. Ha appena vinto il ricorso al Consiglio di Stato contro una sentenza del Tar pronunciata circa un anno fa. In primo grado i giudici avevano dato ragione alla società che quei capannoni voleva realizzarli, la Società Agricola Ponte Pio srl, al 100% della Società Agricola Fileni. E che aveva ottenuto il provvedimento autorizzatorio unico regionale (Paur) a febbraio 2020. Come raccontato da ilfattoquotidiano.it, Tesei aveva contestato quel provvedimento e al Tar aveva presentato le sue motivazioni in dieci punti, legati anche a ragioni di natura urbanistica e all’impatto sui livelli di inquinamento e sulle risorse idriche.

La sentenza del Consiglio di Stato – Il Tar aveva respinto il suo ricorso (pur riconoscendolo legittimo) e Tesei si è così rivolto al Consiglio di Stato, che ha ribaltato quella decisione, con una sentenza pronunciata anche contro Regione Marche, Ministero della Cultura, Comune di Monte Roberto e Provincia di Ancona. “I giudici hanno rigettato la richiesta della società di ritenere il mio ricorso infondato (in questo caso confermando la posizione del Tar) ma hanno anche sottolineato – spiega Tesei a ilfattoquotidiano.it – il carattere ‘nocivo’ degli allevamenti industriali che superano determinate dimensioni e per i quali è necessaria una variante urbanistica al piano regolatore”. Che, in questo caso, mancava.

Quando i cittadini possono ricorrere contro le “industrie nocive” – In Appello Tesei ha impugnato la sentenza di primo grado per cinque ragioni, mentre la Società Agricola Ponte Pio ha risposto, contestando la posizione del Tar che, pur dando ragione all’azienda, aveva già ritenuto legittimo il ricorso di Tesei. “Ed è forse questo uno dei passaggi più interessanti anche nella sentenza del Consiglio di Stato” commenta. “La tutela dell’ambiente – scrivono i giudici – si connota per una peculiare ampiezza del riconoscimento della legittimazione partecipativa e del coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati”. E si cita un’altra sentenza pronunciata dal Consiglio di Stato nel 2017, secondo cui “il fatto che i ricorrenti vivano abitualmente in prossimità del sito prescelto per la realizzazione dell’intervento o, comunque, abbiano uno stabile e significativo collegamento con esso, tenuto conto della portata delle possibili esternalità negative, rappresenta un elemento di per sé qualificante della legittimazione e dell’interesse a ricorrere”. In questo caso l’interesse trova ragione d’essere, in primis, nella “contiguità” tra l’allevamento e la proprietà della famiglia Tesei, compresa la villa “oggetto di vincolo culturale” che dista circa 400 metri dall’allevamento. Il Consiglio di Stato ha ritenuto, dunque, corretta la valutazione del Tar secondo cui “il ricorso è stato proposto da soggetti proprietari di terreni e fabbricati posti in stretta vicinanza con il sito interessato dall’intervento, i quali potrebbero subire gli effetti potenzialmente lesivi riconducibili alla sua realizzazione”.

Le ragioni del ‘no’ all’allevamento – Le altre ragioni per cui il ricorso è stato ritenuto legittimo sono quelle che hanno spinto il Consiglio di Stato anche a dare ragione a Tesei. “Sono stati accolti i motivi che abbiamo presentato – spiega a ilfattoquotidiano.it – e che riguardano, tra le altre cose, la mancata presenza della variante urbanistica al piano regolatore necessaria per un allevamento intensivo di quel tipo (anche se in sede di Conferenza di servizi si era giunti a una conclusione diversa, ndr), a maggior ragione tenendo conto della vicinanza al fiume Esino e del rischio di eventuali esondazioni”. La sentenza si sofferma proprio sul valore paesaggistico e culturale dell’area a tutela del quale “sussiste anche una dichiarazione di notevole interesse pubblico” in quanto Valle del Fiume Esino. Ma anche sugli effetti che un allevamento del genere avrebbe potuto avere: dall’aumento del traffico veicolare alla svalutazione immobiliare della villa, fino alla impossibilità o, comunque, maggiore difficoltà di programmare attività di valorizzazione del compendio a fini turistico-ricettivi, produttivi o sociali e all’insorgere di possibili molestie olfattive. Tesei, tra l’altro, aveva impugnato anche l’autorizzazione paesaggistica comunale e il parere della Soprintendenza che “non avrebbero adeguatamente apprezzato la correlazione tra la realizzazione dell’impianto ed il paesaggio”.

La variante che manca – Altro punto centrale della sentenza, dunque, è quello relativo alla mancanza della variante al piano relatore generale necessaria “nell’individuazione di zone specifiche per la localizzazione” di allevamenti intensivi classificabili come “industria nociva”. Per il Consiglio di Stato non c’è dubbio che l’allevamento che si voleva realizzare rientrasse in questa definizione date le caratteristiche tecniche e le volumetrie. Si parla di 8 capannoni con superficie utile complessiva di oltre 25mila metri quadrati e una volumetria di più di 90mila metri cubi, oltre alle strutture di servizio. Per il Tar la problematica relativa alla volumetria occupata (e quindi alla necessità o meno della variante, ndr) era “stata affrontata, vagliata e superata in sede istruttoria”. La società, infatti, sosteneva che “parte del volume sottostante le cuspidi dei capannoni, in quanto destinato ad ospitare gli impianti mobili deputati all’alimentazione e all’abbeveramento dei polli” fosse da considerare ‘volume tecnico’. Ma per il Consiglio di Stato si tratta di una tesi infondata: “Le cuspidi – si legge nella sentenza – sono elemento costitutivo dell’architettura dei capannoni e racchiudono un volume interno ad essi, costituendone parte integrante”. Tra l’altro, si parla di oltre 42mila metri cubi, quasi la metà del volume complessivo dei box dell’allevamento e che, per il Consiglio di Stato, non si può escludere dal calcolo complessivo. Ergo: la variante che manca era necessaria, eccome.

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