Fa discutere la proposta della Commissione europea di rivedere la direttiva sulle emissioni industriali, includendo per la prima volta gli allevamenti intensivi di bovini tra gli impianti che devono ottenere specifiche autorizzazioni ambientali e che devono rispettare limiti ben precisi sulle emissioni. Al pari di centrali elettriche, impianti di trattamento dei rifiuti e aziende chimiche. Si chiede, inoltre, di rendere più stringenti anche le regole per gli allevamenti di suini e pollame. Di questi, infatti, solo quelli di maggiori dimensioni sono soggetti alla direttiva varata nel 2010 e attualmente in vigore. La norma così modificata, invece, si applicherebbe non solo agli impianti con 150 ‘unità di bovino adulto’ (Uba), ma anche a quelli con spazi per 375 vitelli, 500 suini o 300 scrofe e 10mila galline ovaiole. Per Greenpeace si tratta di “un miglioramento significativo rispetto all’attuale normativa”. Immediata la reazione di Confagricoltura. “La Commissione europea continua a manifestare un orientamento punitivo nei confronti degli allevamenti – ha commentato il presidente Massimiliano Giansanti – mentre i capi di Stato e di governo hanno chiesto di aumentare la sicurezza alimentare”.

La proposta della Commissione Ue – Oggi sono soggette ai vincoli della direttiva, tra gli allevamenti intensivi, solo le aziende con spazio per più di 40mila polli, 2mila maiali o 750 scrofe che, già oggi, devono ottenere permessi, monitorare e ridurre le emissioni di tutte le sostanze inquinanti emesse, compresi i gas serra. In una bozza del piano circolata nei giorni scorsi, si prevedeva di andare anche oltre, fissando la soglia a 100 unità di bovino adulto, poi aumentata in seguito alle pressioni delle lobby del settore agricolo. La stessa Commissione ha calcolato che fissare la soglia a 100 Uba avrebbe portato a benefici per la salute per oltre 7,3 miliardi di euro all’anno, grazie alla riduzione delle emissioni di metano e ammoniaca. Benefici che, stando alla nuova proposta, sono stimati in 5,5 miliardi di euro, ossia 1,8 miliardi di euro all’anno in meno. In seguito alla presentazione di questa proposta i Paesi membri e il Parlamento Ue dovrebbero iniziare i negoziati sul dossier prima dell’estate, guidati dalla Commissione Ambiente e salute al Parlamento europeo e dai ministri dell’Ambiente al Consiglio.

Greenpeace: “È il minimo indispensabile” – ”Ridurre l’inquinamento degli allevamenti intensivi è essenziale per affrontare gli impatti su clima e biodiversità, per risparmiare miliardi di soldi pubblici riducendo i costi sanitari e ambientali ad essi connessi e per iniziare una transizione verso sistemi alimentari più sostenibili”, spiega Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia. “È ora di rispettare il principio ‘chi inquina paga’ invece di scaricare i costi sulla collettività”, aggiunge Ferrario, secondo cui “sottoporre a idonee autorizzazioni attività inquinanti come gli allevamenti intensivi è il minimo indispensabile”. Non si tratta solo di clima e perdita di biodiversità, ma anche di impatti negativi su qualità dell’acqua, dell’aria e del suolo, oltre a incidere pesantemente sul clima e sulla perdita di biodiversità. Secondo il Centro comune di ricerca della Commissione europea (JRC), il settore zootecnico è responsabile dell’80% delle emissioni di ammoniaca nell’aria e di azoto nell’acqua, mentre l’European Nitrogen Assessment stima che l’inquinamento da azoto costi, ogni anno, all’Unione europea fino a 320 miliardi di euro.

Confagricoltura: “Allevamenti a rischio” – A fare i conti sugli effetti che tale modifica della direttiva potrebbe avere sugli allevamenti è Confagricoltura. “Attualmente solo il 5% degli allevamenti avicoli e suinicoli delle strutture attive negli Stati membri rientra nella sfera di applicazione della direttiva in questione”, ricorda Giansanti, calcolando che sulla base delle proposte della Commissione “si salirebbe al 50%”, senza considerare l’estensione agli allevamenti di bovini. “Rischiamo un taglio di produzione a livello europeo – commenta – aprendo così la strada a maggiori importazioni da Paesi terzi dove le regole sono meno rigorose di quelle valide nell’Ue, anche ai fini della sostenibilità ambientale”.

Il decreto sul benessere animale – Tutto questo avviene mentre in Italia fa discutere l’iter per l’approvazione di un sistema di etichettatura nazionale sul benessere animale che, secondo gli ambientalisti è “privo degli standard che permettano di garantire un maggiore rispetto degli animali allevati a scopo alimentare e fraudolento per i consumatori”. Quattordici le associazioni che aderiscono alla coalizione #BugieInEtichetta e che sono in prima linea contro la proposta portata avanti dai ministeri delle Politiche Agricole e della Salute con Accredia. Il decreto prevede la certificazione con il claim in etichetta ‘benessere animale’ anche per prodotti, denunciano le associazioni, provenienti da animali allevati secondo standard al ribasso, tipici delle forme di allevamento intensivo. Tra le modifiche principali che si chiede di apportare al decreto l’introduzione di più livelli (di cui almeno due al coperto) diversificati per ogni specie chiaramente visibili in etichetta, la cancellazione di riferimenti non attinenti al benessere animale e la considerazione dei bisogni etologici di specie, della densità di animali (incompatibili con i sistemi di allevamento intensivo) e delle condizioni di trasporto tra i criteri atti a determinare il benessere animale. “Mai come in questo momento – scrive la coalizione – in cui la grande richiesta di cereali da parte degli allevamenti intensivi rischia di compromettere ulteriormente il sistema agroalimentare europeo già minacciato dalla guerra e dai cambiamenti climatici, servirebbero misure che spingano gli allevatori ad abbandonare i sistemi intensivi, per scegliere metodi più rispettosi degli animali e dell’ambiente”.

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