Ciriaco De Mita è stato una delle figure di maggior rilievo della Democrazia cristiana e del cattolicesimo democratico. Si affaccia nella Dc nazionale alla fine degli anni Cinquanta, appena trentenne, nella corrente di sinistra “Base”, attenta ai valori della Resistenza e della laicità, convinta che il partito dovesse intraprendere un ruolo di rinnovamento sociale, riecheggiando in questo le posizioni già sostenute dieci anni prima da Giuseppe Dossetti. La “Base” – che a lungo rappresenta circa il 20% del partito – è anche la corrente più legata al presidente dell’Iri Enrico Mattei ed è animata da una visione mediterranea e filo araba (non gradita agli Stati Uniti) più vicina agli interessi di approvvigionamento energetico dell’Italia.

L’impegno sociale sul quale si fonda la “Base” punta a sfidare il Partito comunista sul suo stesso terreno (più volte sarà l’intendimento di De Mita), un’impresa ardua per un partito contenitore come la Democrazia cristiana che, in nome dell’unità dei cattolici, raggruppa orientamenti distanti tra loro, nello spazio di divaricazione tra riformatori e conservatori.

A metà degli anni Sessanta sono i giovani dirigenti democristiani, “la terza generazione”, a denunciare l’immobilismo dello Stato e a rimarcare la crisi dei partiti. È una lettura innovativa sulla quale De Mita converge dimostrando di essere attento studioso ai fenomeni politici-sociali, al ruolo dei ceti medi e alla questione meridionale, vissuta da vicino essendo nativo di Nusco, un piccolo comune montano dell’Irpinia. Le sue ambizioni di rinnovamento sono rilanciate quando sale alla presidenza del Consiglio, nell’aprile 1988. Per le riforme istituzionali, di cui avverte la necessità, De Mita si affida al politologo Roberto Ruffilli, freddato dalle Brigate rosse nella sua casa di Forlì sabato 16 aprile, tre giorni dopo l’insediamento del governo.

Proprio negli anni Ottanta, la carriera di Ciriaco De Mita tocca il suo apice, con la lunga segreteria politica dal 1982 al 1989 e la breve esperienza di 15 mesi alla guida dell’Esecutivo. De Mita avrebbe sicuramente gradito una Democrazia cristiana capace di compiere scelte più nette, a cominciare dall’organizzazione interna, ma il desiderio di superare la frammentazione delle correnti – sostenuto anche da altri leader del partito – finisce per arginarsi. Magari le correnti si riaggregano e cambiano nome, ma non attenuano il loro potere di frapposizione.

Già nel febbraio del 1974, nel dibattito che porta alla legge sul finanziamento pubblico dei partiti, De Mita denuncia le forme anomale di finanziamento ai partiti – attraverso l’Enel ad esempio – lamentando che solo una parte di quei flussi di denaro giungono alle casse dei partiti.

Gli anni Ottanta vivono nell’alleanza conflittuale tra la Dc di De Mita e il Psi di Bettino Craxi, a capo del governo dall’agosto 1983 al marzo 1987. Il leader socialista cerca di spingere il partito cattolico verso un’area conservatrice per attestarsi come il principale modernizzatore della società italiana. A De Mita non giova la polverosa gabbia di “intellettuale della Magna Grecia” nella quale Gianni Agnelli e la satira del varietà Drive in lo confinano. Sul fronte dei contenuti, la Democrazia cristiana di De Mita assume posizioni coraggiose come quando cerca di ridurre le connivenze mafiose in Sicilia (più che un risultato raggiunto, un percorso intrapreso). Nel 1983, dopo avere perso alle elezioni oltre il 5% dei suffragi, De Mita guarda alla crisi dei partiti come un fenomeno che proviene da lontano, ritenendo poi opportuno il superamento del sistema elettorale proporzionale con l’inserimento di un premio di coalizione per realizzare un vero bipolarismo. Analogamente alle posizioni di Aldo Moro, anche De Mita ritiene che la Dc e il Partito comunista siano alternativi ed entrambi portatori di una piena legittimità istituzionale.

Nel 1991 – quasi come una Cassandra – De Mita denuncia il ruolo passivo del suo partito, avvolto dalla sua crisi interna anziché rispondere alle esigenze della società. Davvero profetico quel suo “così come siamo non possiamo più essere”. Sin dall’inizio degli anni Ottanta, De Mita avrebbe voluto che la Dc rispondesse al Pci anche sulla questione morale. In questa chiave, all’interno del partito, il ruolo crescente degli avellinesi amici di De Mita (Biagio Agnes, Gerardo Bianco, Nicola Mancino) è però mal digerito. Se non altro, De Mita non viene coinvolto nella bufera di Mani pulite. In tempi successivi, De Mita riconosce nel discorso parlamentare di Bettino Craxi sui finanziamenti illegali ai partiti un percorso che “se condiviso, avrebbe potuto costituire una via di uscita dignitosa e autorevole”.

Su questo aspetto si colloca il limite di un politico intelligente come De Mita, ma profondamente legato all’idea della intramontabilità della sua classe politica che, ovunque e come tutte, è invece bisognosa di periodici ricambi. Una intramontabilità coerentemente da lui impersonificata sino alla fine.

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