Le autorità dell’Arabia Saudita usano i divieti di viaggio per punire e controllare attivisti, scrittori, giornalisti, dissidenti che vivono all’estero e parenti di questi ultimi.

La campagna #LetThemFly, lanciata nei giorni scorsi da Amnesty International, si occupa dei casi di 30 difensori dei diritti umani che, quando avranno terminato di scontare le condanne emesse al termine di processi-farsa, saranno oggetto di un divieto di espatrio.

Altre 39 persone, familiari di attivisti che vivono fuori dall’Arabia Saudita, si sono ritrovate senza alcuna notifica ufficiale a non poter viaggiare all’estero. La strategia è crudele: da un lato, impedire di raccontare al mondo cosa accade in Arabia Saudita; dall’altro, separare nuclei familiari per un periodo di tempo indeterminato. Il caso più noto è quello del blogger Raif Badawi, rilasciato l’11 marzo dopo aver terminato di scontare una condanna a 10 anni di carcere per reati di opinione. Per altri 10 anni è previsto che non potrà vedere la moglie e i figli, rifugiati in Canada.

Una storia meno nota ma altrettanto drammatica è quella di Abdulrahman al-Sadhan, operatore della Mezzaluna Rossa, arrestato nella capitale Riad il 12 marzo 2018 perché pubblicava post satirici su un account Twitter. Letteralmente scomparso per due anni, il 5 aprile 2020 è stato condannato a 20 anni di carcere, seguiti da altri 20 anni di divieto di viaggio. Sua sorella, Areej al-Sadhan, residente negli Usa, la pensa così: “Separano le famiglie. È una cosa illegale e inumana. Con questi divieti di viaggio, è l’Arabia Saudita stessa a diventare una prigione”.

I provvedimenti colpiscono anche all’interno dell’ampia famiglia reale: come nel caso di circa 300 persone colpite dalla purga dell’hotel Ritz Carlton del novembre 2017.

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