di Marco Vecchione

Parliamoci chiaro: oramai nemmeno la guerra ci spaventa, neanche il rischio di un’escalation militare incontrollata e dai contorni inquietanti ci turba più di tanto. Siamo passati alla cosiddetta fase due di sopravvivenza che, in tempi di pandemia, è già fase tre, o forse quattro. Perché la nostra resilienza ha raggiunto livelli esagerati e, a tratti, esasperati.

E’ vero, c’è chi non ha retto alla paura e all’assalto di stampa, social e tv. Un’ondata sconsigliata ai deboli di cuore e soprattutto di testa che ha fatto più di qualche danno. Ma in fondo ci siamo quasi tutti abituati alle pessime notizie, più o meno rassegnati a scenari catastrofici. E’ la nuova normalità, è la vita, bellezza, nonostante tutto. Un’assuefazione tale da non farci più scorgere la novità, da non farci comprendere un cambiamento, da rendere tutto uguale.

Pensiamo al nuovo coronavirus: ci ha prima terrorizzati e ossessionati, poi abbiamo imparato a conoscerlo, a conviverci, tra versioni ufficiali e ufficiose, tra ottimismo e pessimismo. C’è ancora, lo sappiamo, ma non ci scoraggiamo. Un po’ come il vaccino: per mesi un altro bel banco di prova per scettici e meno scettici che ora non impensierisce più nessuno.

Ed eccoci all’Ucraina, la mazzata finale perfetta per menti già traballanti. In effetti, se le rivolte a Kiev e gli scontri nel Donbass del 2014 “grazie” a giornali e tv non avevano nemmeno sfiorato la nostra sensibilità, al pari di altri focolai sparsi per il mondo (e qui ci sarebbe tanto da dire), quel 24 febbraio scorso, data di inizio della guerra-operazione speciale (chiamatela come volete) è ben impresso nella nostra testa.

Un altro incubo ma anche un’altra palestra di vita di cui avremmo fatto volentieri a meno. Abbiamo trascorso qualche notte insonne, ore a inseguire aggiornamenti (reali o presunti tali), a guardare i nostri figli, a riflettere sull’universo. Prendevano il sopravvento timori e preoccupazioni per un conflitto così vicino, così drammatico, così (poco) inaspettato; sconcerto e incertezza stampati sui nostri volti, realtà e immaginazione a inseguirsi; pensieri rivolti incredibilmente a missili, combattimenti, rifugi antiatomici. Da non credere: roba da far impallidire e addirittura rimpiangere le giornate dove il tasso dei contagi faceva da padrone e i posti letto non bastavano per tutti. Sensazioni assurde e contraddittorie.

E adesso? Adesso, nel giro di poche settimane, abbiamo preso confidenza anche con la guerra; forti di bombardamenti mediatici che non fanno più rumore, forti di un’assuefazione che sa tanto di auto-rassicurazione. Per quello che può succedere e che mai, speriamo, succederà. Una speranza che è paura, ma paura mascherata. Perché terza guerra mondiale, minaccia nucleare, fine del mondo sono scenari da brividi ma che, incredibilmente, sembrano non sconvolgere più la nostra esistenza proprio adesso che è in pericolo.

Crisi economica, rincari, effetti di sanzioni e auto-sanzioni: la nostra preoccupazione attualmente è tutta qui, tutta rivolta a una battaglia quotidiana sempre più dura e spietata. Nulla a che vedere, per carità, con la catastrofe di chi poco distante da noi sta perdendo tutto, ma la nostra è una battaglia che pure fa danni, alla quale non ci si abitua tanto facilmente.

D’altronde, lo sappiamo bene, non siamo più forti: siamo solo consapevoli che tutto, ma davvero tutto, è cambiato. Il mondo è cambiato e noi con lui, noi per primi.

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