Pacifismo e interventismo si scontrarono nel 1915 in Italia per poi approdare alla prima guerra mondiale. Anche ora due approcci culturali si fronteggiano. Risulta perturbante il fatto che entrambi, più che parlare della bontà del loro progetto, tendano a parlare male dell’atteggiamento avverso. I pacifisti puntano sul fatto che l’invio di armi, inevitabilmente, porta a maggiori morti e a un possibile prolungamento a oltranza della guerra. Gli interventisti denigrano la resa all’aggressore che sottende, a loro avviso, l’idea pacifista. Sembra di assistere a un colloquio fra una coppia che si sta separando durante il quale, invece di parlare di cosa fare per migliorare la situazione, i due tendono a demonizzarsi a vicenda. Nessuno però sa indicare quale sia il possibile sbocco della situazione. Soprattutto si tratta di un “dialogo fra sordi” inconcludente.

Inviare o non inviare armi, pare questo il problema? Quando avevo 14 anni, complice il famoso duello scacchistico fra Fischer e Spassky (uno russo e uno americano), mi ero appassionato a questo gioco. Ero diventato bravo da autodidatta per cui comprai, per approfondire l’argomento, un libro intitolato: Strategia e tattica negli scacchi. La distinzione fra strategia e tattica è essenziale e, a mio avviso, ci può aiutare a comprendere il senso dell’eventuale invio di armi o del non invio durante questa guerra. La strategia rappresenta il progetto che abbiamo e la modalità generale con la quale lo perseguiamo. La tattica invece si caratterizza per azioni specifiche che vengono messe in opera volta per volta per affrontare una fase del piano strategico o per controbattere l’avversario.

La domanda se sia giusto inviare o non inviare armi è quindi scorretta perché non corrisponde al vero problema. Forse la domanda corretta da porre è: l’invio di armi corrisponde a una manovra tattica temporanea o a una visione strategica? Nel primo caso per impedire la capitolazione di Kiev e permettere di prefigurare una situazione di stallo delle operazioni di guerra russe l’invio di armi è stato utile a un progetto di pace futura. Solo di fronte a un certo equilibrio bellico, con rischi di perdite ingenti per entrambi, i contendenti saranno spinti a colloqui per risolvere il conflitto. Quindi pur essendo strategicamente pacifisti, temporaneamente, per un periodo tattico, possiamo ritenere di utilizzare armi. Se invece l’invio di materiale bellico corrisponde a una visione strategica volta a distruggere o indebolire in modo definitivo la Russia in un conflitto globale che permetta agli Stati Uniti di ergersi come unica superpotenza è probabile che si allontani la pace. Si tratta inoltre di una scommessa e un rischio enormi per tutto il mondo, ma in particolar modo per noi europei, perché questo impianto strategico prolungherà a dismisura le operazioni belliche con la possibilità di passare all’opzione nucleare.

Professarsi pacifisti significa avere una visione strategica pacifica, non necessariamente sempre tattica, in cui popoli diversi per culture, religioni, regimi e forme sociali possano convivere. Se pensiamo che l’unico modo di stare al mondo sia la nostra e professiamo l’esportazione della democrazia (con espansione del capitalismo) i tre quarti abbondanti dei popoli del mondo saranno nostri nemici. In questa visione strategica saremmo in un conflitto permanente perché nel mondo prevalgono le dittature, le teocrazie, le finte democrazie con manipolazione del sistema dell’informazione e i regni. Diverso è il caso in cui accettiamo l’idea di un mondo multipolare e il fatto che ogni popolo debba trovare la sua strada anche se a noi non piace. Possiamo tollerare le teocrazie o come gendarmi del mondo dobbiamo abbatterle? Risulta accettabile per noi una democrazia immatura con un uomo forte che la governa? Possiamo attendere che coi tempi adeguati, come è successo peraltro in Europa, si passi dai Re ai parlamenti e a istituzioni sociali sempre più forti?

Essere pacifisti non vuol dire porgere ad oltranza l’altra guancia, ma almeno una volta sì. Soprattutto significa accogliere l’idea che anche gli avversari hanno le loro paure. Quei tre quarti dei cittadini del mondo come vedono la Nato? La sua tendenza ad espandersi, a inventare sempre nuove armi, a progettare scudi per bloccare le armi degli avversari per essere invincibili? Come vedono la pretesa di imporre l’economia capitalista, con certe regole, a tutto il mondo?

Porre le domande giuste è il primo problema che ogni psicoterapeuta deve fare per aiutare le persone a trovare le proprie risposte. Spesso le persone sono impantanate nel non saper rispondere a domande errate. Anche nel caso di questa guerra la domanda sbagliata, “inviare o non inviare armi”, ci pone in una condizione in cui ogni risposta è errata in quanto in ogni caso ci sono seri problemi. Cercare, come ho provato a fare, le domande corrette ci permette di trovare delle risposte che saranno personali per ognuno di noi.

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