Nel grande spiazzo di Piazza Europa, a poche centinaia di metri dal centro di Pavia, è presente da quasi 40 anni un campo autorizzato dal Comune dove 265 sinti vivono in case mobili. Ora l’Amministrazione di centro-destra intende risanare l’area e per il trasferimento delle famiglie ha già individuato un terreno di 8.660 metri quadrati all’estrema periferia orientale del capoluogo lombardo, sotto il cavalcavia della Tangenziale Est. Qui dovrebbe quindi essere allestito un nuovo campo, una questione che in Italia si riteneva ormai superata dal 2018 quando ad Afragola, in provincia di Napoli, veniva tirato su l’ultimo insediamento costruito nel nostro Paese. Da quel periodo è ormai maturata nel pensiero collettivo la convinzione che i “campi nomadi”, piena espressione architettonica dell’esclusione istituzionale, debbano andare verso la definitiva scomparsa.

Trasversalmente, da destra a sinistra, è ormai opinione diffusa e consolidata che realizzare oggi un nuovo insediamento monoetnico rappresenterebbe un’opzione assurda, perché discriminatoria, traducendosi nel reiterare in un’alternativa abitativa “speciale” riservata esclusivamente a un gruppo etnico. Numerosi organismi europei, dal Comitato Europeo per i Diritti Sociali (CEDS), al Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa (CommDH), dal Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD), all’Alto Commissario OSCE per le Minoranze nazionali hanno riaffermato il principio di non discriminazione laddove, a livello locale, si vada concretizzando la costruzione e la gestione di insediamenti realizzati secondo un preciso criterio etnico perché riservati a comunità identificate come rom o sinti.

Sul fronte nazionale non va dimenticato come già nel 2015 il Tribunale di Roma aveva sancito il carattere discriminatorio della condotta di un’Amministrazione Comunale nella realizzazione di un insediamento riservato su base etnica a comunità rom e sinti. Tirare su un nuovo campo sinti a Pavia rappresenterebbe un’azione, oltre che discriminatoria, anche e soprattutto anacronistica perché in contrasto con gli obiettivi che il governo italiano ha fatto propri nel 2021 tramite l’Unar, quale Ufficio per il contrasto alle discriminazioni presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, mediante l’adozione della “Strategia Nazionale per l’inclusione dei Rom, Sinti e Camminanti”.

L’Unar ha espressamente dichiarato come “la politica dei ‘campi nomadi’ ha alimentato negli anni il disagio abitativo fino a divenire da conseguenza essa stessa presupposto e causa della marginalità spaziale e dell’esclusione sociale per coloro che subiscono una simile modalità abitativa. […] In particolare è un’esigenza sempre più sentita dalle stesse autorità locali il superamento dei campi rom/sinti, in quanto condizione fisica di isolamento che riduce la possibilità di inclusione sociale ed economica delle comunità rom, sinte e caminanti”.

Sia la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani del Senato, sia l’Unar hanno più volte segnalato l’esistenza di “un ampio spettro di opzioni abitative alternative ai campi rom e sinti, peraltro già positivamente sperimentate in numerosi Comuni italiani”. In Italia negli ultimi quattro anni sono stati già chiusi 26 insediamenti rom e sinti e attualmente sono 21 i campi in fase di superamento, in molti casi passando attraverso un dialogo con le famiglie residenti, sicuramente indispensabile.

Proprio per questo, lo scorso 7 aprile 2022, lo stesso presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani del Senato aveva dichiarato la necessità di lavorare con il “massimo sforzo” verso il superamento definitivo dei campi rom e sinti: “Un lavoro che deve essere portato avanti a tutti i livelli, da quello nazionale a quello locale”. Insomma, realizzare un nuovo campo per spostare le famiglie di Piazza Europa rappresenta davvero una sfida contro tutto e contro tutti. Più economico e sicuramente maggiormente rispettoso dei diritti di chi nell’insediamento ci vive – ma anche di quanti abitando a ridosso dovranno eventualmente “subirlo” – sarebbe invece promuovere percorsi di inclusione abitativa avvalendosi anzitutto di strumenti ordinari, come avviene ormai in doversi contesti italiani. Non per una questione di opportunità politica ma di mero buon senso. Quello che oggi a Palazzo Mezzabarba sembrerebbe essersi perso.

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