Sono ben pochi i documenti versati dagli enti dello Stato nell’Archivio centrale: “Si trovano forse in sede improprie?”. L’inquietante interrogativo viene sollevato dagli esperti ascoltati mercoledì 13 aprile dalla commissione Affari costituzionali del Senato guidata da Dario Parrini, durante una audizione che ha fatto il punto sull’avanzamento del processo di apertura delle casseforti del Paese. Non dovremmo trovarci di fronte a questo interrogativo visto che tre diversi presidenti del Consiglio hanno espresso chiaramente la loro volontà di dare trasparenza a tutte le informazioni in possesso dello Stato, per rendere conoscibile la storia dello stragismo e dei suoi complici. Le direttive Prodi, Renzi e Draghi, infatti, al di là di aspetti di minore o maggiore efficienza della loro impostazione, sono un atto politico, la manifestazione di una scelta che va colta in tutto il suo potenziale. Del resto la legge già prevedere una automatica operazione di declassificazione – a meno di un esplicito rinnovo della riservatezza – dunque i documenti si auto-liberalizzano, potremmo dire.

Ma l’esiguità dei materiali fin qui consegnati, rispetto a quelli che si presume siano stati prodotti nel corso della storia della Repubblica, è stata segnala esplicitamente da alcuni studiosi considerati tra i più preparati, come Paola Carucci, già sovrintendente dell’Archivio centrale dello Stato, Michele Di Sivo, attuale Sovrintendente dei beni archivistici della Toscana, e Guido Melis, attento conoscitore delle istituzioni, il quale ha sottolineato che senza interventi diretti l’automatismo non funziona per le pubbliche amministrazioni – “non sono macchine fordiste!”: occorre creare i meccanismi di stimolazione. In questo senso, apprezzando la proposta del senatore Gianni Marilotti, presidente della commissione per la biblioteca e l’archivio storico, che nel suo disegno di legge per la “limitazione del segreto nella Pa” ha previsto una norma per sanzionare “la colpevole violazione del dovere di vigilanza” da parte del dirigente dell’archivio che, immaginiamo, non ha alcuno scopo punitivo ma, appunto, di stimolo nei confronti di una situazione che tende naturalmente alla immobilità.

E’ vero che c’è un problema legato alla situazione degli archivi che rende difficile il rilascio delle carte: non per forza perché si vogliano coprire segreti. Magari solo perché, più banalmente, lo stato degli archivi è nel caos e metterci le mani è complicato, costoso, occorre tempo e personale che non c’è. Il mondo polveroso e sfuggente degli archivi richiederebbe tante risorse e attenzione, non bastano le alte professionalità e l’abnegazione degli addetti. In gioco è la conservazione della memoria storica del paese: come si fa a ricostruirla se al ministero dei Trasporti non hanno neanche una carta sulla sciagura di Ustica , come ricorda Andrea Benetti, dell’Associazione parenti delle vittime? O se consultare le carte alla Farnesina è una vera impresa e i documenti inviati hanno molti, spesso troppi, omissis?

Si susseguono gli interventi, Paolo Bolognesi, battagliero presidente dell’Associazione delle vittime di Bologna, Pippo Iannaci, poderosa memoria storica della Casa della memoria di Brescia, l’ex giudice istruttore Felice Casson. Trapela la fatica di star dietro alla carte: nonostante le Direttive dei tre presidente del Consiglio che impongono la desecretazione immediata di documenti qualsiasi sia il loro livello di classificazione: segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato. E’ escluso il segreto di Stato, atto politico che può essere disposto esclusivamente dal Presidente del Consiglio, tassativamente non opponibile alle informazioni relative a fatti eversivi dell’ordine costituzionale o concernenti terrorismo, delitti di strage, associazione a delinquere di stampo mafioso, scambio elettorale di tipo politico-mafioso, argomento quindi non considerabile.

Un certo sentimento di frustrazione nasce anche dalla considerazione sulla quale insiste Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni, a cui non fa difetto la chiarezza: abbiamo a disposizione alcuni documenti, spesso folte rassegne stampa, ma chi controlla i documenti originari? Di fronte a quell’imponente espressione di volontà di trasparenza – le tre citate Direttive – i risultati sono pochi e si pone con forza una questione già sollevata: perché non nominare una commissione di saggi che abbia il potere di aprire quelle casseforti?

Intendiamoci: è ovvio che uno Stato abbia segreti e che li mantenga e che copra le proprie fonti – non se antiche, tuttavia – ma nel nostro paese c’è stata una questione importante: la collaborazione tra apparanti e segmenti dei poteri occulti. Una commissione ad hoc potrebbe essere una grande chance per la trasparenza ma si lasci fuori il Comitato parlamentare della Repubblica sul quale in audizione è stato chiesto un parere come parte terza: è un organo politico, ma Felice Casson che ne ha fatto parte in passato da senatore, sarebbe favorevole. Per non dire degli archivi stessi del Copasir: chi li ha mai consultati? Infine arriva Aldo Giannuli: ma quando entreremo negli archivi della Nato? Lo storico pone un problema niente affatto secondario. Esiste in ogni paese aderente un ufficio di sicurezza Patto-Atlantico. Ecco, lì non entra nessuno. “Perché la questione non viene posta tra gli alleati?”, chiede Giannuli.

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