Ad aprile del 2020, le compagnie petrolifere americane erano sull’orlo del baratro. I futures sul Wti, l’indice di riferimento per il prezzo del greggio, affondarono in poche ore da 18 dollari al barile a meno 38 dollari. In pratica, si veniva pagati per prendersi il petrolio visto che i costi di stoccaggio superavano il prezzo del barile. La bancarotta venne evitata dal soccorso dell’amministrazione Trump, che iniettò nelle casse delle società tra i 10 e i 15 miliardi di dollari. Grazie al rimbalzo seguito alla pandemia, le major sono tornate a fare profitti, con il 2021 che ha registrato il record di utili degli ultimi dieci anni. A sostenere il settore, infine, è arrivata la guerra.

«Il 24 febbraio del 2022, quando la Russia ha lanciato la sua invasione, è stato un giorno terribile per l’Ucraina. Ma è stato un grande giorno per chi possiede azioni di una compagnia petrolifera». A scriverlo sono tre importanti ong – Friends of the Earth, Public Citizen e BailoutWatch – che hanno raccolto i dati sui buyback e i dividendi distribuiti agli azionisti da parte delle 20 più grosse compagnie di greggio e gas a partire da inizio anno. Le conclusioni del report “Big oil’s Wartime Bonus” sono drastiche: le compagnie energetiche hanno approfittato della guerra per riempire di denaro le tasche di azionisti e manager. La strategia seguita è semplice. Da un lato le aziende riacquistano enormi quantità delle proprie azioni, in modo da ridurre il numero di titoli in circolazione e spingerne il valore. Dall’altro, elargiscono generosi dividendi. A parlare sono i numeri. Analizzando i documenti in possesso della Sec, l’autorità che vigila sui mercati finanziari negli Usa, e gli annunci pubblici delle società, i ricercatori delle tre ong hanno ricostruito quanto è avvenuto dall’inizio dell’anno.

Soltanto nei primi tre mesi del 2022, i buyback da parte delle compagnie sono stati pari a 24,35 miliardi di dollari, il 15% in più di quanto avvenuto in tutto il 2021. Inoltre, sei operazioni sono state fatte a febbraio, quando i venti di guerra avevano già spinto al rialzo le quotazioni. Non solo. «I dividendi (pagati dalle compagnie, ndr) del petrolio e del gas, storicamente maggiori che negli altri settori, si sono impennati negli ultimi mesi, superando qualunque altro comparto industriale». Ben 11 imprese tra le 20 studiate hanno aumentato gli utili distribuiti ai soci. Per nove di queste, l’incremento è stato del 15% mentre per altre quattro ha superato il 40%. Nel complesso, i pagamenti verso gli azionisti sono raddoppiati rispetto al primo trimestre del 2021. E poi, per garantire agli investitori una parte degli extra profitti fatti grazie al balzo dei prezzi dell’energia, le compagnie hanno iniziato a pagare anche “dividendi variabili”.

Al contrario di quelli fissi, che vengono distribuiti ogni tre mesi, i dividendi variabili sono calcolati sugli incassi di un certo periodo in una percentuale prefissata. In questo modo, «gli azionisti beneficiano degli alti prezzi delle materie prime, promettendo loro l’eccesso di cassa che potrebbe essere speso nelle perforazioni, nella riduzione delle emissioni» o in altro modo. Insomma, invece che investire si preferisce assicurare un ritorno agli azionisti. Oltre ai dividendi regolari, da maggio del 2021, l’azienda petrolifera e del gas, Eog, ha pagato 2,3 miliardi di dollari in bonus ai propri azionisti. Anche i prossimi mesi si annunciano molto promettenti. Tutte insieme, Devon Energy, Conoco, Pioneer, Coterra, and Chesapeake e Eog, pagheranno 3 miliardi di dollari in “dividendi speciali” entro la fine dell’anno.

Le cose, però non sono sempre andate così bene. Già prima della pandemia, intorno al 2018-2019, la credibilità delle compagnie oil&gas era stata intaccata da un’ondata di fallimenti e da perdite endemiche registrate nei conti trimestrali. Per rassicurare gli investitori, si legge nel report, l’industria ha adottato una nuova strategia: remunerare «i finanziatori di Wall Street» anche a costo di ridurre gli investimenti. Anzi, contenere la produzione serviva proprio a sostenere le quotazioni del petrolio e del gas. «Con la fine della pandemia» prosegue il report, «i prezzi sarebbero comunque cresciuti grazie alla nuova “disciplina di gestione del capitale” (cioè evitare la sovrapproduzione), unita a un’inaspettata ripresa della domanda e all’interruzione delle catene di fornitura».

Ad aumentare i profitti, poi, ci ha pensato il cigno nero: la guerra. Il 24 febbraio, l’amministratore delegato dell’American Petroleum Institute, la principale organizzazione nel campo della petrolchimica, Mike Sommers, scrisse una lettera al presidente Usa, Joe Biden, chiedendo iter più veloci per l’approvazione dei gasdotti e l’incremento delle trivellazioni. Una posizione che, presa per assicurare «la sicurezza energetica dei nostri alleati», nasconde in realtà un secondo fine: aumentare le esportazioni verso l’Europa. Sempre il giorno dell’invasione russa in Ucraina, l’ad di Cheniere Energy, colosso energetico e il più grande esportatore di gas liquefatto negli Usa, ha dichiarato: «Quello che sta succedendo nell’Europa orientale è tragico… ma se non altro, i prezzi elevati, la volatilità portano ancora più sicurezza energetica e contratti di lungo periodo».

Inoltre, «il fatto che ci sia scarsità di gas liquefatto in questi giorni sta spingendo sempre di più i colloqui su come aumentare le nostre infrastrutture e garantire contratti mensili ai nostri clienti europei». Ma il più chiaro a esprimersi sul tema è stato, qualche settimana dopo, il Consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan. «Ci si aspetta che gli Stati Uniti cercheranno dei modi per aumentare le forniture di gas liquefatto (…) all’Europa non solo nel corso dei prossimi anni, ma anche nei prossimi mesi». Parole a cui, due giorni dopo, è seguito l’accordo tra Usa e Ue per incrementare di 15 miliardi di metri cubi le consegne americane di metano liquido.

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