Nulla di fatto. Mentre il mondo ha gli occhi puntati sull’Ucraina, l’Unione europea – che in base ai trattati sui temi fiscali deve decidere all’unanimità – si è spaccata sul via libera alla già depotenziata tassa minima sulle multinazionali. Nonostante la proposta di ulteriori compromessi al ribasso, l’ambizione di Parigi di arrivare al varo di una direttiva sull’aliquota minima nel corso della presidenza francese rischia di infrangersi contro le resistenze di Polonia e Ungheria, che guidano il gruppi di Paesi reticenti riguardo all’adozione del pacchetto concordato in sede G20, G7 e Ocse.

La riunione dell’Ecofin a Bruxelles è finita con una fumata nera e il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire, grande sponsor della minimum tax, ha dovuto riconoscere il fallimento, pur auspicando che un accordo possa arrivare durante il prossimo vertice di inizio aprile .”Ci siamo battuti per cinque anni e possiamo ancora permetterci tre settimane per sgombrare il campo dai dubbi degli Stati membri”, ha detto. La battuta d’arresto è pesante anche per il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni, che prima dell’incontro aveva auspicato progressi e dopo ha twittato soddisfazione per l’accordo sul meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (una sorta di dazio ambientale sulle importazioni da Paesi con standard ambientali più permissivi) ma non ha commentato la spaccatura sul fisco.

I compromessi proposti dalla Francia non bastano – Il fronte dei contrari comprende anche Malta e l’Estonia. Budapest, Varsavia e Tallinn già a gennaio si erano opposte alla tabella di marcia sull’aliquota minima concordata al G20 di ottobre 2021 e avevano chiesto di attendere il varo del cosiddetto “primo pilastro” dell’accordo, quello che riguarda la redistribuzione del “diritto a tassare” una parte di utili tra tutti i Paesi in cui una multinazionale opera, che dovrebbe entrare in vigore nel 2023. “Non si può accettare un accordo all’Ocse e poi quando è tradotto in una direttiva negli stessi termini dire che non è più valido“, aveva lamentato Le Maire. Ora sembra passato a più miti consigli, pur di portare a casa un risultato. “Alcuni Stati hanno affermato che il termine era troppo stretto. Quindi abbiamo suggerito nel corso della riunione di prorogare il termine al 31 dicembre 2023“, ha spiegato. Non basta: la Francia, come si legge nelle 145 pagine di bozza di direttiva esaminate dai ministri, ha anche proposto di consentire ai Paesi che ospitano non oltre dieci società capogruppo – quelle che saranno chiamate a pagare la differenza tra il 15% e l’aliquota applicata a livello nazionale – di rinviare al 2025 l’applicazione dell’aliquota minima. Non è bastato.

L’intesa al ribasso e i rischi per i Paesi poveri – L’accordo firmato lo scorso ottobre a Parigi da 136 paesi Ocse presentandolo come un passo “storico” è in realtà già nettamente al ribasso, come evidenziato da economisti ed esperti di tassazione. L’aliquota che inizialmente era stata ipotizzata al 21% è via via calata di sei punti, a un livello “scandaloso” come ha sottolineato Thomas Piketty evidenziando la differenza rispetto alla normale imposizione sui redditi dei lavoratori. L’Irlanda non solo ha ottenuto che il prelievo venga fissato al 15% tout court e non più “almeno al 15%” come nella formulazione precedente, ma ha anche rivendicato di aver ricevuto “rassicurazioni” sulla possibilità di continuare a chiedere solo il 12,5% alle aziende con ricavi sotto i 750 milioni. C’è inoltre un grave problema di distribuzione dei proventi: più di due terzi del gettito finirà all’erario dei Paesi del G7 e Ue, mentre stando ai calcoli di Oxfam i Paesi poveri che contano più di un terzo della popolazione mondiale vedranno solo il 3% dei ricavi. Per quanto riguarda il primo pilastro, poi, la porzione redistribuita – stando all’accordo dello scorso anno – sarà residuale e gli impatti distributivi molto limitati. A fronte di questo, gli Stati che hanno introdotto delle web tax nazionali dovranno abolirle. Uno scambio che secondo molti esperti di giustizia fiscale potrebbe paradossalmente danneggiare i Paesi in via di sviluppo che hanno già adottato tasse sui servizi digitali.

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