Dal 1989 la narrativa occidentale non è cambiata: è rimasta trionfalista. Anche davanti all’offensiva militare russa in Ucraina, l’atteggiamento dei leader occidentali è vittorioso. La lotta è tra il bene e il male, noi siamo il bene, Putin è il male e l’esito è certo: vinceremo noi. Nessuno si domanda come sia possibile che la dicotomia degli anni Trenta e Quaranta sia tornata a tormentarci, nessuno ha il coraggio di fare autocritica e chiedersi dove abbiamo sbagliato, dal momento che non siamo riusciti a contenere o a rimuovere il male sul crescere. I media giustamente celebrano l’eroismo e il patriottismo degli ucraini, ma si guardano bene dall’analizzare gli errori di politica estera commessi dalla peggiore classe politica dell’era moderna da quando il blocco comunista è imploso. Non c’è nulla di meglio di un po’ di storia per confrontarci con la realtà.

Non è la prima volta che Vladimir Putin attacca militarmente un’altra nazione – il male non si materializza in poco tempo: se incontrastato cresce, si rafforza, si consolida. Lo ha fatto nel 2008 in Georgia, ad esempio. Non è neppure la prima volta che l’esercito russo letteralmente rade al suolo intere città: è successo in Siria nel 2012. Vi ricordate le immagini di Aleppo dove non era rimasto in piedi neppure un edificio? Chi pensate che guidasse i carri armati russi e chi dava gli ordini? Certo non l’esercito siriano. È successo anche durante la seconda guerra in Cecenia, iniziata nel 1999 con la repressione brutale dei moti di indipendenza.

In tutte queste nazioni, come in Ucraina oggi, colonne di milioni di profughi si sono mosse come formiche sul mappamondo. Mentre marciavano, spesso l’aviazione russa radeva al suolo le loro case, gli ospedali, le scuole, le chiese, le moschee. Edificio dopo edificio, tutto veniva centrato dai missili e si trasformava in macerie. La tattica di Putin è sempre stata la stessa: radere tutto al suolo, fare tabula rasa, cancellare il passato. Queste offensive militari si sono materializzate sotto gli occhi del libero e democratico Occidente, il blocco di nazioni che ha vinto la guerra fredda ma che non ha saputo gestire la pace. E così le guerre di Putin si sono moltiplicate intorno a noi, avvicinandosi sempre di più. Guerre in cui l’esercito russo agiva come i barbari di Attila. A volte, come nel caso dello Stato Islamico, queste guerre ci hanno anche fatto comodo e segretamente siamo stati contenti delle vittorie di Putin.

Inebriati dall’euforia della vittoria della guerra fredda, come scrisse Francis Fukuyama, ci siamo davvero illusi che la storia fosse finita, che eravamo riusciti ad annientare la guerra. E così negli ultimi quindici anni non ci siamo accorti che, mentre Putin vinceva le sue guerre di conquista territoriale, molte cose cambiavano sullo scacchiere mondiale. Nonostante l’espansione della Nato verso est, ad esempio, l’immagine degli Stati Uniti quale potenza mondiale, il cui compito è garantire i principi democratici e la libertà nel mondo, si è via via lacerata. Le menzogne per invadere l’Iraq, gli insuccessi in Siria e Libia e, più recentemente, l’abbandono dall’Afghanistan hanno offerto a nuovi dittatori come Putin una potente narrativa politica antiamericana, diversa da quella della guerra fredda: una narrativa moderna. All’ombra del declino americano, che culmina con l’assalto al Congresso del 6 gennaio dietro incitamento del presidente uscente Trump, questa narrativa ha permesso alla Russia e alla Cina, potenze autoritarie, di avvicinarsi, di formare un blocco ideologico-politico che contrapponga alla decadenza del modello democratico americano la stabilità di quello autocratico.

La risposta dell’Occidente è stata di spingere Putin e Xi fuori del circolo magico dell’élite politica internazionale e di accerchiarli con alleanze e patti a carattere militare. Anche la Cina, dunque, negli ultimi dieci anni è stata allontanata da Washington. La politica diretta a tenere a distanza Pechino, iniziata da Obama, è culminata nella guerra tariffaria di Donald Trump, seguita dal divieto di accesso delle imprese cinesi alle tecnologie più innovative americane. Nonostante le pressioni cinesi, Joe Biden non ha rimosso le restrizioni di Trump, né ha abbandonato il piano strategico dei suoi due predecessori, e cioè di creare la versione asiatica della Nato, che va dall’India al Pacifico.

Invece di seguire il motto romano divide et impera, l’Occidente trionfalista ha fatto di tutto affinché i nemici si coalizzassero, un’unione che ha funzionato bene per una serie di motivi. A livello economico le due nazioni sono complementari: la Russia produce materie prime di cui necessita la Cina e la Cina prodotti ad alta tecnologia, oltre a investire in un settore di cui la Russia ha bisogno. Tra i progetti, ad esempio, la produzione di aerei che faranno concorrenza a Boeing e Airbus. Tutto ciò spiega perché nel 2021 il commercio tra le due nazioni è cresciuto del 37%.

Tra i due leader esiste anche un’intesa, una simpatia a carattere personale che scaturisce dalla condivisione di un’infanzia dura e dal desiderio comune di riportare le proprie nazioni alla gloria del passato. Obiettivo di Putin, lo zar, e di Xi, l’imperatore, è costruire un nuovo ordine mondiale di cui Russia e Cina siano le incontrastate icone. La guerra in Ucraina è il primo banco di prova dell’asse Mosca-Pechino: se la Russia riesce a sopravvivere economicamente grazie al mercato e all’economia cinese, una volta che tutti i legami con l’Occidente saranno recisi, allora accanto alle macerie delle città ucraine ci saranno anche i detriti di molte multinazionali occidentali. E chi pensa che Putin e Xi non abbiano pianificato a tavolino la loro strategia è ancora affetto dalla sindrome del trionfalismo occidentale.

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