La notizia è risaputa. Il sindaco di Milano, presidente del Teatro alla Scala, ha chiesto al direttore russo Valerij Gergiev di dissociarsi dall’invasione di Putin all’Ucraina. Il musicista ha taciuto. Il teatro ha interrotto i rapporti. Anche altri paesi – Stati Uniti, Germania, Austria, Inghilterra, Olanda – lo hanno ostracizzato. Insomma, l’Occidente si distanzia da un artista russo perché non abiura; più in generale, in questi giorni, chiude alla cultura russa tout court.

Il maestro avrebbe dovuto dirigere il 5 marzo a Milano “La dama di Picche”, di Pëtr Čajkovskij, un compositore cui si è spesso rimproverato d’essere fin “troppo” occidentalizzato. In realtà, la moderna cultura russa attinge a piene mani dall’Europa, oltre che dalle tradizioni locali di un territorio sconfinato che si estende in Asia. Che sotto il profilo culturale la Russia sia parte integrante dell’Europa è tangibile. Si pensi a San Pietroburgo: il principale architetto e urbanista chiamato da Pietro il Grande fu il ticinese Domenico Trezzini; gli succedettero, tra tanti italiani, il bergamasco Giacomo Quarenghi, poi il napoletano Carlo Domenico Rossi. Ma già nel Quattrocento, a Mosca, il primissimo architetto del Cremlino fu Ridolfo Aristotele Fioravanti, bolognese. Non meno “europea”, nel prendere e nel dare, è la moderna letteratura russa, a partire almeno da Puškin. Raccolte strabilianti di Impressionisti francesi sono nel Museo Puškin di Mosca e all’Ermitage di Pietroburgo: le si deve a due imprenditori del primissimo Novecento, Ivan Morozov e Sergej Ščukin. Il Bol’šoj è la roccaforte del balletto classico, un’arte nata in Italia e a Parigi. Va detto chiaro: Russia ed Europa sono inscindibili.

Dopo la rivoluzione sovietica (1917), dopo la Guerra fredda (1947-1989), oggi l’invasione dell’Ucraina mette di nuovo in crisi gli scambi con la Russia. Siamo sgomenti. Chiediamoci però: che diritto abbiamo di condannare, oltre il Presidente Putin, anche il popolo russo, i musicisti, gli artisti, gli intellettuali, gli scienziati? Non saranno proprio la cultura, l’arte, la musica, la scienza a consentirci di superare una frattura che rischia di essere permanente, dannosa per noi quanto per loro? Ostracizzare gli intellettuali russi rischia di isolare persone che già vivono una condizione difficilissima.

Il 24 febbraio è stata pubblicata una “Lettera aperta degli studiosi, scienziati e giornalisti scientifici russi contro la guerra con l’Ucraina” (il sito russo è stato nel frattempo oscurato: la si può leggere qui). Ne trascrivo due passi, ammirevoli per assunzione di responsabilità e visione delle conseguenze: “Noi, studiosi, scienziati ed esponenti del giornalismo scientifico russi, esprimiamo una decisa protesta contro le azioni di guerra intraprese dalle forze armate del nostro paese contro i territori dell’Ucraina. […] La responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia”. E proseguono: “Scatenando questa guerra, la Russia si è autocondannata a un isolamento internazionale, allo status di paese maledetto. Questo significa che noi, studiosi e scienziati, non potremo più svolgere il nostro lavoro come abbiamo fatto finora, in quanto la ricerca scientifica è impensabile senza la collaborazione con colleghi stranieri. […] La guerra con l’Ucraina è un salto nel buio”. L’appello, promosso da membri dell’Accademia russa delle Scienze, è corredato da migliaia di firme.

Di fronte alla dolente serietà di questo proclama appare grottesco il gesto, per fortuna rientrato, con cui l’Università di Milano Bicocca, nel “rimandare” le lezioni dello scrittore Paolo Nori su Dostoevskij, ha inteso “evitare ogni forma di polemica in un momento di forte tensione”. Insomma, una forma di cancel culture non degna di un’istituzione, l’università, che ha la mission di incentivare la conoscenza e gli scambi. Da parte sua, la SIAE, a firma del presidente, Giulio Rapetti Mogol (1° marzo), comunica che, “come segnale di solidarietà nei confronti dell’Ucraina”, sospenderà “il pagamento del diritto d’autore alle società d’autori russe, fino al termine del conflitto”. Pare che anche il comitato promotore dell’International Piano Competition di Dublino voglia interdire ai giovani pianisti russi la partecipazione al concorso nel 2022.

Questa è xenofobia. Essere russi non è una colpa! Rispetto a tali ‘sanzioni culturali’, esito di un politically correct micragnoso, brillano per converso altre iniziative. Il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli (4 marzo) ha dato un concerto “Insieme nella musica” con allievi ucraini e russi. Il 27 febbraio, fatta propria la dichiarazione dell’ALLEA (European Federation of Academies of Sciences and Humanities), l’Accademia dei Lincei ha espresso “la sua piena e più vicina solidarietà ai colleghi e alle colleghe ucraini” nonché agli “scienziati e divulgatori scientifici russi”. Gli organizzatori del Concorso pianistico Busoni di Bolzano, uno dei più esclusivi del pianeta, ricordano che esso è nato nel 1949 per “curare le ferite della seconda guerra mondiale e costruire ponti tra nazioni e culture”: pertanto incoraggiano i giovani pianisti, “in particolare quelli di Ucraina, Russia e Bielorussia”, a partecipare alla prossima edizione. Così si fa.

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