Mai avrei pensato che la serpe, subdola e sinuosa, l’avessi in famiglia. Eppure la prova era lì, da quasi 30 anni, in bella vista sulla credenza del salotto. Tra centrini e cornici d’argento ormai opache, una matrioska. Il simbolo per antonomasia del nemico. Quando l’ho vista, dopo un secondo di sconcerto – me lo concederete – non ho avuto esitazioni: via, scagliata fuori dalla finestra. Lei e tutte le piccole copie di lei che covava in seno. E a nulla sono servite le proteste di mia nonna, la vipera, che continuava a ripetere che ero impazzito, che era solo il souvenir di un viaggio premio sorteggiato a mio nonno, fu sindacalista. Per di più, la biscia, aveva perfino preparato per pranzo l’insalata. Russa. Dritta nella pattumiera assieme ai libri di Tolstoj e di Čechov. In casa, per fortuna, non le ho trovato della vodka. Ma tornerò per cercare meglio.

L’aneddoto ridicolo è il prototipo fantasioso di altrettanti aneddoti ridicoli, stavolta reali, che in questi giorni diventano allarmanti. Per esempio: lo sconcertante caso Nori-Dostoevskij all’Università Milano Bicocca; la pazzoide richiesta al sindaco Nardella di abbattere la statua sempre del povero Dostoevskij a Firenze; la vergognosa esclusione degli atleti e delle squadre russe da ogni sport e da ogni competizione, anche dalle Paralimpiadi; il pasticcio ‘Netrebko’ al Teatro La Scala. Un’isteria. Un’isteria che è diventata tirannia del pensiero antirusso: il modo più scriteriato per contrastare la vera tirannia di Putin. Negli Usa stanno perfino boicottando la vodka senza sapere che è polacca.

È una follia assoluta, lancinante, controproducente. Cultura e sport sono i più efficaci veicoli di pace e di fratellanza tra popoli, e noi cosa stiamo facendo? Li usiamo per alzare muri, alimentare rancori, ampliare spaccature. Immaginate la forza mediatica del vedere atleti russi e ucraini confrontarsi alla pari, stringersi la mano e fraternizzare alla fine di una competizione. E invece no: separati a tavolino, il Cio così ha voluto. Mentre da un lato il mondo per bene scende in piazza ad invocare pace, dall’altro quello stesso mondo esclude atleti disabili dalle Paralimpiadi, la più grande manifestazione di inclusione, perché colpevoli di essere nati proprio lì. Senza nemmeno chiedere cosa pensino della guerra, senza nemmeno sapere se pregano per un fratello al fronte contro la sua volontà.

L’ho scritto nel mio post precedente, lo ripeto e lo scandisco: il popolo russo è vittima, non è nemico. O almeno non lo è tutto. Migliaia di pacifici manifestanti arrestati a San Pietroburgo, ragazzi-soldato che ammettono di essere finiti in Ucraina a margine di un’esercitazione (finta): sono questi gli avversari della libertà? Sono loro i mostri?

Boicottare la cultura e lo sport vuol dire condannare in mondovisione la stessa identità russa, spingere un Paese a pensare che il suo dittatore agisca davvero per proteggerlo da un Occidente ostile. Non possiamo permetterci di emarginare un popolo che oggi ha il peso e la responsabilità storica di doversi opporre al suo regime. Settant’anni fa i tedeschi dissero di non aver visto, di non aver compreso; settant’anni dopo per i russi sarebbe una giustificazione impossibile. Eppure, bisogna capirlo, oggi vivono lacerati tra la propaganda interna e ciò che fuori il resto del mondo condanna, tra la paura di ritorsioni e le opposte aspirazioni di libertà.

Sta a noi evitare di spingere ancor di più i fratelli russi nell’abbraccio mortale, per tutti, di Putin.

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