di Massimo Arcangeli*

Il 4 febbraio scorso, sollecitato dall’amico Angelo d’Orsi, ho lanciato una petizione contro lo schwa, sottoscritta al momento da quasi 22.000 firmatari, siglata da una trentina di intellettuali, fra linguisti e letterati, storici e filosofi, artisti e scrittori (da Massimo Cacciari ad Alessandro Barbero, da Edith Bruck ad Ascanio Celestini, da Cristina Comencini a Barbara De Rossi, da Luca Serianni a Francesco Sabatini, da Gian Luigi Beccaria a Claudio Marazzini).

Ecco le dieci ragioni per le quali ritengo inaccettabile l’immissione dello schwa, nel suo ruolo di vocale neutra portatrice d’“inclusività”, nell’italiano corrente.

1. Serio pericolo di un’“ufficializzazione”. Lo schwa, semplice (ǝ) e “lungo” (з), è stato accolto in sei verbali redatti dalla Commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia del Settore concorsuale 13/B3 – Organizzazione Aziendale. Entrambi i segni compaiono anche nei giudizi collegiali sui candidati, e in quelli formulati singolarmente dal Presidente, dal Segretario e da un terzo membro dei cinque commissari (qui, però, in un unico caso, con riferimento a un solo candidato: «Professorǝ Associato»). Importare lo schwa in un testo “codificato” – un libro, un documento o un articolo di giornale – è un’aberrazione linguistica.

2. Impulso alla generalizzazione (gratuita). Nei sei verbali i cinque Commissari hanno utilizzato gli schwa in modo indiscriminato, in riferimento a se stessi e ai candidati esaminati, come fossero tutti portatori di identità non binarie.

3. Natura destrutturante dell’innovazione. Lo schwa non è un semplice neologismo. È un corpo estraneo che viola irrimediabilmente le regole ortografiche e fono-morfologiche della nostra lingua, e immetterlo in un documento prodotto da un’amministrazione centrale dello Stato pubblico è un precedente di una gravità inaudita. Autorizza chiunque, d’ora in poi, a redigere un atto pubblico in emoji o in volgare duecentesco, o magari a disseminarlo di ke, xké o qlc1 (invece di che, perché e qualcuno).

4. Disorientamento normativo. Gli “sperimentatori” dello schwa, coscienti dell’impossibilità di spalmarlo in un testo in maniera uniforme e sistematica, predicano regole grammaticali “elastiche”. Nella trascrizione di un’intervista al Corriere della Sera (14 novembre 2021) l’eco-filosofo americano Timothy Morton ha reclamato, per rispetto della sua identità non-binary, la giusta marca di genere, e l’intervistatrice l’ha così riportato nel testo come filosof*. Un qualunque nome – in italiano – si porta però dietro i necessari accordi grammaticali (fra articoli, preposizioni articolate, pronomi, aggettivi e participi passati), e poteva uscirne, al limite, una premessa all’intervista di questa destabilizzante fattura: Lə filosofə non binariə americanə Timothy Morton è statə irremovibile, ha voluto che ci rivolgessimo a ləi come stiamo facendo.

5. Illegittima pretesa di una minoranza. Una cosa è chiedere al nostro interlocutore di venirci in qualche modo incontro, con le forme e le parole più adatte e rispettose possibili, se ci siamo scoperti portatori di un’identità incerta o fluttuante, un’altra cosa è pretendere di metter mano alle norme linguistiche di un’intera comunità nazionale perché soggiacciano alla volontà di pochi.

6. Estensione all’italiano parlato. Trasferire lo schwa al parlato, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio a sud di Roma e il calabrese dell’area di Cosenza. Sarebbe la rivincita dell’Italia meridionale e mediana contro il modello normativo tosco-fiorentino. Un’idea magari simpatica, ma peregrina e farsesca.

7. Cancellazione dei femminili. Se l’unanime volontà dei membri della Commissione universitaria era di dare cittadinanza, nei loro verbali, anche al genere femminile, evitando il maschile sovraesteso, sarebbe bastato riferirsi ai candidati e alle candidate, agli autori e alle autrici, e così via, o si poteva parlare di persone e chiuderla lì. Plurali inclusivi come autorǝ o coautorз, anziché contrastare davvero i maschili autori e coautori, spediscono di fatto in soffitta i femminili autrici e coautrici.

8. Aggravamento di disturbi neuroatipici. Il 4 maggio 2021 il ministro francese dell’Educazione nazionale, Jean-Michel Blanquer, ha inviato una circolare ai direttori amministrativi centrali, ai provveditori agli studi e al personale ministeriale per vietare alcune forme inclusive colpevoli, specie ai danni di allievi dislessici, di complicare la lettura e l’apprendimento dell’idioma nazionale.

9. Danni ai pubblici doveri di trasparenza linguistica. Nel 2017 un’altra circolare francese (22 novembre), diramata dal primo ministro Édouard Philippe, aveva invitato i membri del governo a rinunciare all’écriture inclusive, nei documenti ufficiali destinati al pubblico, per non pregiudicarne l’intelligibilità e la chiarezza.

10. Aumento del disordine prodotto dalla moltiplicazione incontrollata delle marche di genere. La proliferazione delle pensate ambigenere, agenere o antigenere è ormai incontrollata: Car* collega, Caro/a collega, Car@ collega, Caro-a collega, Caro(a) collega, Carx collega, Caro.a collega, Caro·a collega, Car’ collega, ecc. Al plurale? Car* collegh*, Carə colleghə, Cary colleghy, Carei colleghei, Carie colleghie, Carз collegз, ecc. C’è anche Caru tuttu. Siamo tutti sardi, friulani, discendenti di compare Turiddu?

* linguista e scrittore, Ordinario di Linguistica italiana, Università di Cagliari

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