In ogni grande storia ce n’è una più piccola, che magari si tende a dimenticare nonostante sia determinante per l’esistenza stessa di quella storia. Nel calcio accade spesso: pensiamo all’ultima Champions vinta dall’Inter, da Mourinho, Milito, Eto’o, Samuel. Ci sarebbe stata senza “il gambone di Mariga” nella semifinale di Barcellona? E l’ultimo scudetto del Milan, di Pato, Seedorf, di Ibra e Thiago Silva… e di Rodney Strasser, con un gol importantissimo, decisivo prima di cadere nell’oblio. E in una città dove magia e alchimia sono di casa, tanto da immaginare addirittura un uovo come simbolo dei destini della città, non poteva che esserci qualcosa di non convenzionale a fare da pietra angolare per la storia, o almeno la nuova storia, della squadra di calcio.

Già, perché il Napoli del pallone poggia la sua nuova storia, targata Aurelio De Laurentiis, su un pallone appunto: sgonfio, e della Lazio. È l’estate del 2004, il Napoli non esiste più: è fallito, sotto il peso di una mole debitoria neppure insormontabile considerando i tempi, circa 30 milioni di euro. Vorrebbe rilevare la società Luciano Gaucci, che organizza pure la presentazione a Piazza Plebiscito, riempendola. Vorrebbero rilevare il Napoli tanti altri che annusano l’affare. Ma sono vicende tribunalizie queste, dall’altro lato c’è la squadra o quel che ne resta, che attende di sapere cosa fare. Molti vanno via, qualcuno rimane: si organizza un ritiro improvvisato ad Abbadia San Salvatore, ma anche di quei calciatori che sperano di continuare, magari ancora in B, in una piazza importante pochi rimarranno col passare inesorabile di giorni senza schiarite. Pochi rimarranno quando le nebbie saranno diradate e il Napoli, ormai una squadra fantasma, passerà ad Aurelio De Laurentiis, ormai a settembre.

Tra quei pochi ci sono due medianacci, che in fondo alle situazioni difficili sono abituati, siano botte a centrocampo o aspettare decisioni di tribunali e federazioni: uno è Francesco Montervino, l’altro Cataldo Montesanto, che era arrivato un anno prima da Ascoli. Fuori tempo massimo, e infatti con una deroga per il mercato e due partite del campionato di C1 rinviate, il nuovo Napoli parte per il ritiro a Paestum: ma il primo giorno ci sono solo Montervino, Montesanto, Mariano Stendardo, il Pampa Sosa e l’eterno Salvatore Carmando all’Hotel Aariston. Non hanno nulla con loro a parte gli effetti personali: è il ritiro di una squadra di calcio, non c’è una maglietta, un “fratino”, un cono. Non c’è manco un pallone. Montesanto ricorda di averne uno in auto: è sgonfio, e, pare, griffato Lazio che chissà come ci è andato a finire in quel bagagliaio.

Poco importa: è il primo pallone toccato dal Napoli ed è storia. Montesanto parteciperà a quella storia tirando calcioni e sradicando palloni in C, venendo buttato nella mischia all’occorrenza da Ventura prima e da Reja poi, che quando non sei un fenomeno o porti il pallone o ti adatti. Un solo gol, ma meglio non ricordarlo: col Foggia, unico del Napoli in una delle più cocenti sconfitte dell’epoca, quando allo Zaccheria finì 4 a 1. Cataldo otterrà la promozione in B, e resterà fino a gennaio 2007 per poi essere ceduto al Monza, senza mai scendere in campo in categoria cadetta, mentre il Napoli arriverà in A, poi in Europa, poi a vincere qualche trofeo e a contendere scudetti in A. Montesanto invece continuerà a giocare nelle categorie minori, ottenendo anche un nuovo primato, dopo quello del pallone del Napoli: sarà il primo giocatore espulso per aver bestemmiato in campo, durante un match con la Libertas Stabia. Lui negherà sempre la circostanza, spiegando di aver detto sì una parolaccia, ma non blasfema. Ormai non calca più i campi e si è dato all’imprenditoria: compie 45 anni proprio oggi, e chissà che tenga ancora conservato quel pallone, prima pietra di una storia.

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