Adottare in una piccola impresa un’attività di benchmarking standard e conformistica non porta necessariamente a un risultato di successo. Nell’immaginario del piccolo imprenditore, confortato dalla letteratura manageriale prevalente, con il termine benchmarking si intende generalmente l’insieme delle attività poste in essere da un’impresa per attivare un confronto con le migliori aziende di quel mercato su alcune aree, prodotti o processi aziendali. Attraverso questa pratica le imprese possono imparare dai “migliori” in quell’ambito specifico, possono individuare quali metodi e approcci seguono le imprese che hanno le best performance sul mercato e portarli all’interno della propria organizzazione.

Ma il benchmarking non è solo una “tecnica” o uno “strumento”, è un concetto molto potente, un agente di cambiamento della cultura aziendale. Impatta fortemente sui comportamenti e sullo sviluppo di nuovi modi per gestire il business. E non sempre positivamente. Essenzialmente perché il benchmarking classico nelle piccole imprese presenta tre limiti. Il primo riguarda l’approccio all’innovazione. Un’azienda che ricorre sistematicamente a questa pratica, di fatto, soffoca il processo di innovazione interna e blocca i neuroni dell’imprenditore-manager. E’ infatti (apparentemente) molto più facile e conveniente studiare cosa fanno i concorrenti o i migliori del mercato e cercare di riprodurre tali approcci al proprio interno, rispetto alla creazione ex novo. Si elimina nell’impresa la propensione all’esplorazione, la ricerca interna di nuove strade, la valorizzazione delle idee di chi è inserito in quel particolare contesto organizzativo.

Non solo, ma spesso nelle piccole imprese il benchmarking non è guidato da un approccio top-down, che guidi l’organizzazione verso l’obiettivo ultimo di una competitività superiore. L’imprenditore-manager invita i suoi collaboratori operativi a osservare le migliori pratiche ma non lo fa lui direttamente: il benchmarking a livello operativo, se va bene, può fornire solo una piccola spinta, dei miglioramenti incrementali e alcuni benefici operativi locali. Ma nulla di più! Se tutte le imprese si comportassero così, il motore shumpeteriano dell’innovazione si fermerebbe.

Il secondo limite ha a che fare con la complessità. I sistemi complessi (come le aziende) sono caratterizzate dal fenomeno dell’isteresi. Con questo termine si intende una reazione ritardata rispetto a un determinato input o una reazione dipendente dallo stato iniziale del sistema. In pratica, il fenomeno dell’isteresi ci dice che l’adozione di uno stesso input può generare output molto diversi a seconda del momento e dello stato iniziale in cui si applica. Sembra una cosa astratta e puramente teorica, ma in realtà è una cosa che accade ogni giorno. Si pensi, ad esempio, a un genitore che vede il figlio svogliato e poco attento alle lezioni e chiede consiglio a un amico che ha figli molto diligenti a scuola. Il consiglio che ha funzionato perfettamente per i figli dell’amico potrebbe determinare una reazione nel ragazzo svogliato completamente opposta, magari portandolo ad abbandonare definitivamente gli studi. Il problema, in casi come questo, non risiede nella qualità della ricetta o del consiglio, ma nelle dinamiche che intercorrono nei sistemi complessi.

Una situazione analoga potrebbe verificarsi applicando i principi del benchmarking nelle piccole aziende: quante piccole medie imprese adottano modelli commerciali cercando di “scimmiottare”, con risultati totalmente opposti, realtà di successo!

Il terzo limite, conseguenza dei precedenti, risiede nella idiosincrasia a guardare indietro, quelle che vengono definite worst practice, per cambiare e crescere. Si deve provare a ribaltare la logica corrente: se guardiamo qualsiasi cosa cercando di capire come mai non funziona a dovere, possiamo allenarci a trovare soluzioni differenti da quelle attuali. Riportando questo ragionamento nella sfera professionale, sembra sia allora inutile studiare le soluzioni proposte dalle migliori aziende perché, se ci ispiriamo a loro, non potremo fare altro che ricalcare proposte già viste, ma cosa ancor più grave non porteremo nessun contributo nuovo alla mia attività. Al contrario, se guardiamo i competitor minori con lo scopo di capire perché sono “peggiori” di noi, forse troveremo alcune idee che potranno anche adattarsi alla nostra azienda. Insomma, se si vuole creare cultura del benchmarking nelle piccole imprese, vale l’equazione “meno imitazione e più innovazione”.

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