di Carmelo Sant’Angelo

Ancora una volta il M5S si presenta in ordine sparso ad un importante appuntamento istituzionale: l’elezione del Presidente della Repubblica. Mettendo in ordine le tessere del puzzle, incastrando i resoconti giornalistici, le indiscrezioni dei retroscena, le dichiarazioni affidate ai social il quadro che ne viene fuori è di un partito balcanizzato. Nonostante gli appelli unitari promossi dal presidente Conte, è innegabile che i 5 stelle abbiano più correnti della vecchia Democrazia Cristiana. Tante correnti, ma nessuna anima.

Chi un’anima l’ha persa o forse non l’ha mai avuta è Luigi Di Maio, pronto a cambiare idea con la stessa frequenza dei pedalini. Mutare opinione è certamente sintomo di vivace intelligenza, purché ciò avvenga in presenza di un nuovo scenario. Appare, invece, un indizio di opportunismo quando la metamorfosi si realizza “pro domo sua”.

Non avrei sufficiente spazio per descrivere le prove offerte dal suo temperamento a mio avviso proteiforme. Valgano per tutte la solidarietà offerta ai gilet gialli trasformatasi nell’omaggio devoto e deferente al Presidente Macron. Prova che non gli ha valso l’oscar, ma, più umilmente, la Farnesina. Oppure le precipitose scuse espresse all’ex sindaco di Lodi, la cui confessione (di aver favorito un imprenditore nell’assegnazione di un appalto pubblico) non è stata di per sé sufficiente, secondo il giudice di prime cure, ad integrare il reato di turbata libertà degli incanti. Dopo aver, ab origine, il M5S distinto il giudizio politico da quello penale, adesso il ministro degli Esteri si converte al sincretismo politico-giudiziario, che vanta molti adepti nelle fila del garantismo peloso.

Con la consueta ruvida schiettezza, Vittorio Sgarbi ha confermato, nell’intervista a Diego Bianchi, che le condizioni per mandare Draghi al Quirinale siano due: assicurare a Di Maio la permanenza agli Esteri e consegnare il Viminale a Salvini. L’individuazione del premier, in tale partita, sarebbe un fattore subordinato, circoscrivendo la competizione a due soli contendenti: Marta Cartabia e Daniele Franco. Che Luigi Di Maio sosterrebbe la corsa del premier verso il Quirinale è meno recondito da quando l’interessato è stato costretto ad esporsi, con le consuete cautele, nell’ultimo conclave del partito.

Fino a qualche mese addietro il trasformismo del Nostro lo incorniciavo nelle parole di Gaber: “Mi fanno male i politici (…) facce esperte e competenti che crollano al primo congiuntivo. C’è solo l’egoismo incontrollato, la smania di affermarsi (…). E voi credete ancora che contino le idee. Ma quali idee?”. Poi ho visto l’ultimo film di Paolo Sorrentino ed ho capito che il personaggio di Fabietto Schisa è più aderente alla figura di Luigi Di Maio.

La trama del film racconta dell’improvvisa morte dei genitori (nella metafora: fisica di Casaleggio e politica di Grillo) che costringe il ragazzo a fare i conti con la solitudine di chi ancora non ha un suo posto nel mondo. Fino a quando la famiglia era unita Fabio-Luigi godeva della stabilità emotiva della sua posizione di figlio amato e prediletto. Per cui non aveva necessità di essere carismatico, non sentiva l’esigenza di avere un suo punto di vista nitido sul mondo. Poteva permettersi il lusso di non avere contraddizioni, anzi di essere integro (“non disunito”) nel suo fragile candore.

Il grave lutto costringe Fabio-Luigi ad imparare ad accettare i rischi spaventosi di quella tragica e improvvisa libertà. Un evento triste che di colpo accende la solitudine nella vita del protagonista, ma anziché segnarne una parabola discendente, prelude ad un percorso di ascesa, alla crescita, alla scoperta del potere, alla realizzazione delle proprie ambizioni.

Probabilmente “è stata la mano di” Grillo ad impersonare il Fato che spinge il giovane orfano verso il sostegno al premier. Sarà perciò necessario bilanciare questa spinta con un mechanè che metta ordine nel disordine incontenibile delle esistenze umane. Da qui il mio appello: “Gigino, non ti disunire!”.

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